COLUCHE, CLOWN DE LA REPUBLIQUE: IL REALISMO NELLA COMICITA’  di Valeria Minicilli

traduzione 

INTRODUZIONE

Le molteplici manifestazioni del riso, segnali primari del comico hanno suscitato l’interesse di tutti i più 'grandi spiriti': filosofi, letterati, poeti, drammaturghi, esteti, umoristi, psicologi e musicisti, che hanno trattato la questione con fermezza e rigore si sono molto impegnati nel voler spiegare le cause del riso e le ragioni del comico.   

L'ampia varietà di menti che, nei secoli, hanno sollevato ipotesi sull’argomento testimonia quanto la realtà del comico e del linguaggio comico sia talmente complessa e sfaccettata che sia impossibile cercare di ridurla ad una qualche unità. Nulla quanto il comico, infatti, appare permeato di altri elementi che, dal punto di vista formale, possono essergli del tutto estranei e dei quali, semmai, il comico si serve come 'veicolo'. 

Questa tesi si porrà, nei confronti del linguaggio comico, in una prospettiva 'aperta', caratterizzata da un sano e, si crede, proficuo 'relativismo'.  Relativismo del quale era cosciente Coluche, l'indimenticabile comico francese, che non ha mai preteso di piacere a tutti, ma che ha voluto, durante la sua breve esistenza, provocare, denunciare, scuotere e soprattutto divertire, in primo luogo gli amici e poi coloro che lo hanno saputo comprendere. 

A quasi vent' anni dalla sua scomparsa si continua a parlare di lui con una frequenza che normalmente non viene riservata a tutti i personaggi che si sono distinti. In TV, sui giornali, nelle radio francesi si rievoca il suo nome; la sua presenza si percepisce, oggi come ieri, nella vita di tutti i giorni. Non ci si stupisce, allora, se i parigini, che approfittano di ogni occasione per decorare qualcosa che in altre città verrebbe lasciato spoglio, abbiano scelto la sua foto, insieme quella di altri grandi artisti come Charlie Chaplin ed Edith Piaf, per dare un tema alla fermata del metro Le Tuileries, intitolata ai più significativi personaggi ed artisti della Francia del XX secolo. Non sorprende neanche trovare un suo cenno biografico in un libricino che viene distribuito da una donna bisognosa in cambio di qualche spicciolo e dal titolo Mémoire du 20ème siècle e ancora meno vederlo protagonista della trasmissione Génération Coluche andata in onda, sul canale televisivo francese M6, il giorno 27 marzo 2005. 

Coluche ha rivoluzionato il modo di parlare attraverso la stampa ed i media in un'epoca in cui la volgarità, di gran lunga presente nella realtà della periferia parigina, non si abbinava altrettanto bene con la scena pubblica. Egli introduce il linguaggio scurrile, popolare e gergale là dove, prima di lui, nessuno aveva osato farlo. Dopo un primo grido allo scandalo, tutta una generazione di francesi ha cominciato ad adorarlo per le sue verità scomode, urlate a suon di interventi radiotelevisivi, gesti eclatanti, sketches nei music-hall. Egli ha influenzato, con le sue idee, i giovani e i comici che lo hanno seguito, grazie anche alla sua capacità di trasformare le parole in fatti.      

Coluche è stato un uomo dalla vita proiettata verso il futuro, sempre pronto a pensare come rendere il giorno successivo non migliore né più bello di quello odierno, ma semplicemente più divertente; e cosa c'è di più divertente nella provocazione che mette in ridicolo i dogmi della religione, i pregiudizi della gente, le promesse utopistiche dei politici e l'ipocrisia della classe media? Tutto questo attraverso un linguaggio certamente volgare, scurrile, tagliente, senza pietà per nessuno, sempre politicamente scorretto. E se non tutti possono permettersi di scherzare sul razzismo o su problemi sociali come l'alcolismo o la droga, Coluche può, perché, grazie alla sua maniera di farlo, egli suscita il riso delle stesse vittime. 

 

CAPITOLO I - COLUCHE: UNA VITA IN GIOCO

Michel Coluche, uno dei più grandi comici francesi del XX secolo, non era che un figlio di ‘Rital’. Il suo vero nome era, infatti, Michel Colucci.

Sua madre Simone Bouyer nasce nel 1920, in una famiglia di piccoli commercianti originari di Charentes. I Bouyer abitano in Boulevard Montparnasse, uno dei quartieri ‘bene’ di Parigi. Simone segue degli studi piuttosto avanzati per essere una ragazza che vive nel periodo antecedente la Guerra: ottiene un diploma superiore di segretaria e si afferma come impiegata in un’azienda floreale, diventando, molto presto, la preferita della famiglia Baumann, responsabile dell’attività. Sempre una parola gentile per i clienti! Così la ricorda chi frequentava l’azienda.

Monette, questo è il suo soprannome, aspetta con ansia che giunga il sabato per vestirsi a nuovo ed andare a ballare al Petit Moulin o al Cafè La Belle Polonaise, accompagnata dai fratelli Robert e Guy. Sono questi i luoghi in cui si riuniscono i giovani e in cui iniziano, nei confronti della graziosa fioraia, i primi corteggiamenti, non ultimo quello di Onorio Colucci, detto Nono, di quattro anni più grande di lei. Francese di origini italiane, egli abita con la sua famiglia a Choisy-le-Roy, non lontano da Parigi. 

I Colucci erano arrivati in Francia negli ultimi anni Venti, da Casalvieri, un paese di poche migliaia di abitanti che occupa il cuore della Ciociaria, nella Valle di Comino (Lazio). La famiglia era numerosa, otto fratelli e cugini dei quali non si sa molto, se non che si installarono nelle comunità italiane dell’epoca, a Champigny-sur-Marne, a Villejuif, Clamart, Pontault-Combault, lungo il perimetro della capitale, in quella che non era ancora la periferia, ma un insieme di borgate, industrie e zone di campagna. Svolgevano i tipici lavori da immigrati; la scelta variava dal muratore all’imbianchino. Cesare, padre di Nono, è ricordato come scultore di pietre, ma è la buona Maria, sua sposa, una piccola donna vivace e rotondetta, ad assicurare il sostentamento della famiglia, lavorando nei mercati. Bisogna ammettere che Cesare aveva piuttosto la fama di un ‘buon a nulla’. Amante dell’ozio e sempre troppo stanco, all’uscita del suo bar preferito, per riguadagnare il suo posto in cantiere. E a stare alla parola di Monette e di diversi altri testimoni, Onorio avrebbe preso un po’ da suo padre. 

Il padre di Coluche, Onorio Colucci

Quando i due s’incontrano, Onorio non ha un’occupazione fissa. Di ballo in ballo egli trova sempre più di suo gusto la piccola fioraia e, dopo aver sollecitato ed ottenuto il patrocinio di Robert, viene presentato alla famiglia Bouyer, malgrado l’iniziale reticenza di Monette. Marius, suo padre, che ama la figlia di una tenera gelosia, non vede questo italiano di buon occhio. Lui stesso lavora nel ramo dell’acconciatura, sua figlia in quello della floricoltura, e questo lo autorizza a nutrire, almeno segretamente, altre aspirazioni per lei. Al contrario, la madre trova di buone maniere questo ragazzo che s’improfuma ad ognuna delle sue visite. E poi, una volta partito in Algeria per rispondere agli obblighi militari, egli invia spesso prove delle sue ‘nobili’ intenzioni; Monette si piega nonostante la titubanza del padre. Onorio e Simone si sposano il 21 ottobre 1941. L’alleanza franco-italiana è stipulata!

Onorio Colucci e Simone Bouyer

Un po’ come per Maria con Cesare, anche in questo nuovo nucleo familiare è Monette che assicura il sostentamento della famiglia, accettando un secondo lavoro, mentre Onorio passa la maggior parte del tempo al Caffè di Henri Schmitt. Si sposa a 22 anni e dopo poco tempo diventa mamma di una bambina di nome Danièle. La famiglia Colucci decide di andare ad abitare a Montrouge, in un piccolo appartamento in Rue Emile Boutroux dove, precisa la Signora Colucci, “on avait pas où danser”.

 

Onorio con i figli Michel e Danièle

“È vero, mio padre trascorreva molto tempo nei caffè, ma lei avrebbe dovuto sentire la sua voce. Era un artista e mia madre, molto rigida, non l’ha mai capito”. Si scopre finalmente che Onorio non era solo un ‘parassita’ ma che amava andare nei caffè a cantare le canzoni di Louis Mariano in cambio di qualche moneta. Tutti adoravano la sua voce, tuttavia Simone avrebbe preferito vederlo con un lavoro ‘normale’. Danièle sembra aver capito il senso artistico del padre attraverso Michel, che ne ha ereditato in pieno il carattere: entrambi hanno vissuto con l’idea di fuggire da qualsiasi schema già prestabilito dalla società, ma forse Onorio non ha avuto la possibilità di esprimere a pieno la sua personalità.

Danièle ha perduto suo padre prestissimo e conserva di lui un ricordo molto più tenero e malinconico rispetto a Michel, che invece sembra avere un vero e proprio rifiuto per la morte, della quale non ha mai amato parlare. D’altra parte, ci racconta Veronique Colucci, ex moglie del comico, egli non ha mai varcato la soglia di un cimitero, neanche per portare un fiore agli amici più cari.

 

Simone con in braccio Michel

Michel, Gérard, Joseph Colucci, in arte Coluche, nasce qualche settimana dopo la liberazione di Parigi, il 28 ottobre 1944, alle ore 18 e venti, in un ospedale del XIV arrondissement. Scorpione, ascendente Toro.

Come tutta la Francia, i Colucci attendono il benessere che dovrebbe risultare dalla pace ritrovata; un’attesa inutile, perché questi Italiani non diventeranno mai ricchi. Onorio muore a trentun’anni di una poliomielite fulminante e la sua scomparsa improvvisa provoca un allontanamento di tutto ciò che è l’Italia dalla vita di Monette e dei suoi figli. La vedova di Nono verrà invitata ancora ai matrimoni ed alle comunioni di famiglia, ma solo la dolce Maria considererà questi tre sfortunati come i suoi. Lei sarà una nonna per Michel, offrirà lui dei regali e resterà sempre “Mémé Maria”. Danièle e Veronique Colucci chiariscono, oggi ed ancora una volta, la realtà dei fatti, sostenendo che sia stata piuttosto Monette a voler dimenticare il legame di parentela con questi Italiani. La sorella di Michel è molto franca nel dare la sua opinione. Ella ammette che i suoi genitori non erano fatti l’uno per l’altra. Troppo sognatore lui, troppo rigida lei, con la scomparsa di Onorio non vi era più un motivo per mantenere dei contatti. Alle domande dei suoi figli Monette ha sempre risposto che il loro padre era napoletano, non soffermandosi a parlare troppo di lui. Michel è morto convinto di aver avuto un padre napoletano e solo Danièle ha potuto scoprire le sue vere origini, in seguito ad un viaggio in Italia fortemente desiderato. Forse qualcuno si chiederà quale sia la gravità di questo equivoco. Probabilmente lo scopo di Monette era quello di indicare approssimativamente un luogo che non aveva mai avuto la possibilità di vedere, tuttavia è importante, per chi ha avuto modo di assaporare la comicità casalvierana e quella di Coluche, ricollegare il personaggio alle sue vere origini. A volte, nel leggere gli aforismi di Coluche, si ha la sensazione che egli abbia ereditato, seppur inconsapevolmente, lo spirito casalvierano. 

Soffrirà Michel dell’assenza del padre? Certamente, chi non ne avrebbe sofferto? Ma a differenza della maggior parte dei bambini nella sua stessa situazione, egli non avrà mai un’immagine paterna da ricercare o da rifiutare. Onorio non sarà che un fantasma senza volto. Ancora bambino chiede a Monette:

  • - Il est mort, papa?
  • - Mais non, il est décédé…
  • - Ah bon, il est pas mort.

Nei primi tempi si eviterà di rispondere alle domande di Michel, ma è evidente che la sua intelligenza lo avrebbe portato presto ad una consapevolezza stupefacente per la sua tenera età. Nono sarebbe stato un buon padre, è sicuro, se solo avesse avuto il tempo di dimostrarlo. Per lui, Michel inventerà una personalità piacente, quella di buonuomo venuto dal sud dell’Italia. Coluche, dirà lui, si considerò, a scuola, un figlio di ‘Rital’, apparteneva cioè a ‘quelli che se la passavano male dopo la guerra’. Litigherà spesso con quei bambini che lo prenderanno in giro circa il suo cognome. Difenderà sempre i Colucci, senza sapere nulla o quasi sul loro conto e, per orgoglio, improvviserà una leggenda circa la loro discendenza da un ricco immigrato. In definitiva egli amerà soprattutto un’idea di padre. Ne parlerà poco, anche ai suoi amici più stretti. Quando verrà obbligato a rispondere sarà pronto a mordere, più rapidamente del solito. Se la tecnica del bravo giornalista prevedeva un’innocente prima domanda volta a conquistare la confidenza dell’intervistato ed una seconda più precisamente indirizzata a carpirne l’intimità, in questo senso non era certamente Coluche un soggetto facilmente abbordabile. “Professione del padre?”, gli domanderà un giorno un giornalista. Lui risponderà: “Morto!”. 

 

Coluche e la sorella Danièle

Nonostante la giovane età già traspaiono la sua vera natura, il gusto per la battuta volgare e la risposta sempre istantanea. In classe è un anarchico, un antitutto, qualcuno che fa ridere i compagni in quanto tiene testa all’istitutore. È già in lui la psicologia del ‘clown’; prende forza l’arte di deridere e ridicolizzare, di fare la guerra servendosi di un linguaggio vivo, efficace, volgare, a suo modo innovativo, a volte ignorando una vera identità nemica. Anche sua sorella Danièle ci conferma che durante le prove per l’imminente giorno della prima comunione, lei e Michel si trovano in chiesa col parroco per imparare i canti da intonare. Tra questi ve ne è uno che recita: “Venez Devin Messie” ed il piccolo Michel, che allora ha circa dieci anni, pensa bene di sostituire questa frase celestiale urlando la più terrena “Venez mes imbecils”, suscitando l’imbarazzo della sorella, il riso dei compagni e l’ira del parroco che lo punirà impedendogli di partecipare alla cerimonia.

Perderà, a suo dire senza rimpianto, il diploma di terza media. Anni più tardi ammetterà la sua sofferenza per non aver imparato le sottigliezze, gli artifici della grammatica francese. Nasconderà questa mancanza sotto una grafia illeggibile ed avrà sempre bisogno della rilettura di uno dei suoi amici per redigere le sue lettere ufficiali.

I documenti sulla gioventù di Coluche sono pochissimi ed i testimoni di questa epoca sono rari. In periferia i compagni si perdono rapidamente di vista, cambiano spesso città. Si sa che a quattordici anni Michel milita nella Solo band, che non è un gruppo rock, bensì una vera banda di ragazzini poco raccomandabili, campioni nel marinare la scuola e con un solo regista: Michel, l’unico in grado di dare tono e stile all’epopea derisoria. Scoreggia più forte degli altri, soprattutto davanti alle ragazze, rutta a volontà, ha il dono dell’insulto tanto provocatorio da far secca una mosca. Di compagni, nella Solo, Michel ne ha tanti ma Boubule sarà uno di quelli che lo seguiranno anche nella sua futura avventura parigina, facendogli da uomo tuttofare. 

Michel va a lavorare, non ha scelta. Monette gli cerca un posto, con l’aiuto dei vicini. Farà prima il postino, poi il ceramista, il cameriere, vero questa volta, il libraio, l’apprendista fotografo, l’assistente per un mercante di legumi, il fioraio… in realtà non svolgerà alcuna di queste occupazioni che per una settimana. Giusto il tempo di provarne disgusto e litigare con i suoi superiori. Postino, dunque, egli giudica troppo faticoso portare tutti i telegrammi che gli affida la Posta. Allora li legge e decide di non portare che le buone notizie, cestinando le altre. Una vicina si ricorda: “Il est arrivé. Le télégramme était ouvert. Il m’a dit: C’est rien de grave, just votre mère qui vous annonce qu’elle arrivera lundi. Allez, au revoir! Officiellement, c’est interdit, mais on accepte les pourboires”. Il postino viene licenziato senza preavviso, ovviamente. Oggettivamente Michel è un ragazzo partito un po’ male.

Intanto Montrouge scopre i Beatles, Johnny Halliday, gli Chaussettes Noire, soprattutto Elvis Presley, del quale Coluche consacrerà, in seguito, Love me tender. Molto presto, come tutti i ragazzi della sua età, Michel vorrà la sua chitarra, troppo cara per le sue tasche e causa di lunghe discussioni con Monette.

Ma l’infanzia finisce e con essa tutte le ragazzate, in seguito alla partenza per il servizio militare. Michel Colucci viene chiamato più tardi dei suoi compagni: egli assicura la sussistenza della famiglia. Ma come tutti quella della Solo, non ne sarà esente, eviterà semplicemente la guerra d’Algeria, combattuta qualche mese prima. Di questo soggiorno sotto la bandiera, non dirà mai nulla, neanche ai suoi amici più intimi. Una caserma, un aneddoto, un’esperienza. Il corpo militare, che gli alimenterà un odio solido per le divise, incluse quelle dei poliziotti, sarà il solo universo in cui Coluche non si farà mai degli amici. Il suo addio all’infanzia, coincide probabilmente con questo soggiorno a Dinard, durante l’estate del 1963, quando Michel ha 19 anni.

Michel Colucci a 19 anni

Durante tutta la sua vita, Coluche si è scontrato con l’enigma della povertà. Più che con essa con i suoi difetti! In fondo, non ha mai attaccato, sulla scena, alla radio o nella vita personale che l’ipocrisia, le idee già pronte, l’incommensurabile ignoranza dei livelli più bassi della scala sociale, o meglio degli scalini medi. Ancora ragazzo nutrirà, all’inizio in maniera inconscia, una ribellione costante contro la fatalità dei piccoli impieghi. Come i suoi compagni si farà licenziare dai lavori saltuari. Quattordici volte. Ma non quattordici volte per niente. Già refrattario alla scuola, sente che ogni ingaggio nasconde una trappola, il rischio di lasciarsi bloccare in un salario, una maniera di vivere, anche onorevole, un modo di pensare. Dirà lui: “A quinze ans, on s’est demandé ce qu’on allait foutre dans la vie. Les uns pensaient devenir voleurs, les autres commerçants, puisque les commerçantsn sont des voleurs qui ont le droit de l’être. Moi, je raisonnais à l’envers, je voulais devancer l’appel pour revenir plus vite du service militaire, épouser plus vite une petite et posséder un frigidaire sur cour. Alors j’ai dit aux copains qu’on était des cons, qu’il fallait faire comme les gens intelligents, c’est-à-dire aller au cinéma, jouer aux échecs, et parler «art». Ça a impressionné tout le monde.

I compagni non gli crederanno e si lasceranno lentamente scivolare verso delle vite predestinate. Solo Boubule lo seguirà, più per tenerezza che per reale convinzione. A sedici anni Michel cerca già il mezzo per vivere come i ricchi, ossia senza affaticarsi. Delinquente, commerciante o impiegato nel registro della banalità. Come fuggire alla rigidità di una tale scelta? Egli si dice che la vita d’artista rappresenta forse la soluzione ideale. Fare l’attore non può essere un lavoro massacrante e le riviste assicurano che si può guadagnare molto. Telefona a qualche scuola di Parigi dove però non s’insegna che l’arte drammatica, la tragedia. In più ciò esige della cultura e lui è contro. Non insiste, riponendo in un angolino della sua testa questa breve illusione. A sedici anni Michel Colucci si mette a riflettere: i poveri si affaticano col lavoro, dunque bisogna evitare di affaticarsi; solo i soldi fanno vivere, non il lavoro. Si persuade che l’astuzia dei ricchi risieda nella loro perfetta conoscenza del sistema, nella loro intelligenza e nella loro cultura. Solo ora si rende conto che, sotto questo profilo, ha perso un’importante occasione.

Ormai sta per partire da Montrouge. È arrivato il momento di salutare la Solo, di muoversi rapidamente per non annoiarsi, strapazzare un po’ l’amico Boubule, vedere dieci novità al giorno, ampliare i propri confini. Egli ha perso troppo tempo e affila la sua personalità di ragionatore solitario a contatto con tutti quelli che possono aiutarlo senza ritenersi dei professori. 

L’inizio del personaggio Coluche avviene intorno al 1966, quando Michel entra nel caffè Chez Bernadette, rue des Bernardins, e chiede di poter fare la questua tra i clienti. “On m’a gardé pour faire la vaisselle. J’ai fait le ménage, les corse, la cuisine, et puis, comme il y avait un cabaret et que personne ne voulait commencer, c’est moi qui ai assuré le lever de torchon, avec une guitare et deux chansons de Bruant”. È là che il soprannome di Coluche gli sarebbe stato attribuito. Perché Colucci non suona come un nome di cantante.  

I Girasoli 1966/67

Valeria Minicilli, COLUCHE, clown de la Republique: il realismo nella comicità, Estratto dalla tesi di laurea, Corso di Laurea DAMS, Cattedra di Estetica Musicale, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università di Tor Vergata, Roma, a.s. 2003/2004