Siamo nel 1953, a Casalvieri. Da alcuni anni Gelsomina ha raggiunto il suo Giovanni a Villejuif, in Francia, dove vive e lavora già da diverso tempo.
Hanno appreso e gestiscono il concetto “vacanza”. A metà luglio, come di consueto, Gelsomina con i suoi quattro marmocchi, Anna, Riccardo, Aldo e Simona, è in treno per tornare presso la casa paterna a Plauto, la contrada che presidia l’ingresso sulle Gole del Melfa verso Roccasecca. Tra qualche giorno li raggiungerà papà Giovanni. Sono giorni e settimane sospirate ed agognate: sanno di sole, di colori e di profumi estivi, sanno di facce accaldate, di aria aperta e di notti stellate. Ma un dramma incombe sulla famigliola. Per voto promesso, lo rievoca con parole vibranti ed incarnate Barbara Mollicone. Parole che Il commento di Vittorio Macioce, con dote empatica, incornicia ed illumina. Una storia che a distanza di poco meno di settantanni inumidisce ancora gli occhi…
Valcomino-senzaconfini
Che bel bambino avevo. Mi ha fatto tremare il cuore. Ancora, certe volte, lo sogno di notte. Sono passati tanti anni, troppi. Troppi anni a separarci, troppi anni io e lui lontani. E non è così che sarebbe dovuta andare, o forse sì. La vita è bizzarra, spesso tanto ingiusta. Il mio bambino…è vicino a me che doveva stare.
Ho cinque figli. Cinque figli e un buco nel cuore. Cinque figli e cinque pugni. Cinque. Li ho visti correre per casa, lasciare i giocattoli ovunque; piangere a più non posso, urlare e poi di nuovo ridere. Li ho sentiti giocare, tutti. Pronunciare le prime parole. Li ho ammirati mentre sbadigliavano, ho insegnato a tutti a dormire la notte. E li ho seguiti mentre facevano i loro primi passi, mentre con la matita disegnavano segni incerti su un qualsiasi pezzo di carta, o lasciavano le loro dispettose tracce sui muri, mentre volevano parlare e non sapevano fare altro che dare un suono incerto ad ogni fiato. Li ho curati con tutto il mio amore, a volte con impazienza, spesso con preoccupazione. I miei figli, i miei bambini. Sono quattro, l’ho già detto? Però erano cinque.
Aldo era bello. Aveva gli occhi di una giumenta. Un bimbo silenzioso e docile, con i capelli color carbonella. Non fatemi pensare, quante volte l’ho sognato. Bimbo mio sei sempre bello, vieni ancora, un altro bacio, una carezza…ho paura, non sai quanta, di dimenticarti troppo in fretta.
Eravamo sul treno. Eravamo cinque. I miei quattro bambini ed io. Eravamo sul treno per l’Italia: sole, luce finalmente! Quanta nebbia nelle serate spente di quella casa alla periferia di Parigi. Lavoro, scuola e lavoro. E poi scuola e tanto da fare. Anna, Riccardo, Aldo e Simona. Eccoli i miei tesori, quanti schiamazzi che fanno mentre il treno sembra correre così veloce da mangiarsi le montagne. Li ho pettinati uno per uno, prima di scendere. Ho ravviato le ciocche stoppose di Simona, che è ancora troppo piccolina per fare da sola; ho scacciato polveri immaginate sulle camiciole e sui calzoncini: quanto sono belli, da me non hanno preso. Siamo pronti per scendere, siamo arrivati a Roccasecca. Il treno ha smesso la sua corsa, adesso siamo a casa. Una casa fatta soprattutto dei miei ricordi, e di tanto sole, perché ai bambini il sole fa bene, e poi sono contenti, qui possono correre e giocare, liberi come a Parigi non sarebbero mai.
Anna, Riccardo, Aldo e Simona
Il pomeriggio è afoso e odora di sapone. Di panni stesi al sole e presto ritirati, con le fibre già asciutte e tese; che bellezza questa quiete e questa vita, quasi selvaggia, che facciamo ad agosto, quasi ogni anno. Vengo qui per i bambini, ma anche un po' per me. Dovunque vada sono sempre un'italiana, dovunque vada è qui che sono nata.
Nonna Gelsomina con la cugina
La penombra fa parte delle nostre giornate, il sole è sempre troppo forte per lasciarlo entrare. Dalle persiane filtra una luce arancione dai riflessi verdi e blu: io respiro l’odore delle piante già quasi seccate dall’aridità estiva, pronte a lasciare che le foglie disegnino mulinelli insieme al vento, pronte a spogliarsi nel prossimo autunno, pronte a rinascere.
I bambini. Loro giocano. Certi giorni, persino, li scordo. Vanno via presto, al primo pomeriggio, e fuggono scalzi verso le colline che abbiamo intorno, le piante dei piedi quasi più sicure delle suole di scarpa per arrampicarsi sulle rocce. Li sento ridere, urlare. E poi più niente. Poi di nuovo ridono, urlano, si chiamano. E poi ancora più niente. Quando il sole scende tornano nel mio cortile, hanno sempre il fiatone. Tanta fame. E continuano a ridere.
Il piccolo Aldo con la sorella Anna ed una cugina di Plauto
Stamattina c’è afa e il cielo è grigio. Arriverà il temporale a spezzarne l’armatura. Stanotte Aldo ha pianto spesso. Anzi, non un pianto, era un lamento. Penso che ha fatto brutti sogni, che ieri ha mangiato troppi dolci, che ha corso ed era troppo eccitato. Penso che ero molto stanca e il suo lamento non mi ha fatto riposare. Ha gli occhi cerchiati quando si sveglia. Viene in cucina ma non vuole mangiare. Rifiuta la sua colazione, è mogio mogio. D’un tratto, dopo l’ennesimo gesto d’insistenza con cui gli porgo la sua tazza di latte, la rovescia a terra, insieme a un fiotto di vomito giallo. Gli tengo la fronte con la mano, i conati continuano fino allo spasmo. E’ caldo, ha la febbre. Sta male, il mio bambino.
Non ci è voluto molto per trovare la macchina. Mio zio non era ancora uscito e allora ci ha portato di corsa dal medico. Rezza è il dottore dei bambini, dicono che sia bravo e attento. Ho fiducia nelle sue mani mentre preme con decisione sulla pancia del mio bimbo. Aldo nel frattempo ha continuato a vomitare. Penso subito che ha mangiato un’erba cattiva sulle montagne dove va a giocare. Invece Rezza mi guarda negli occhi e quasi mi sveglia da uno strano torpore: “Signora, è appendicite, il bambino deve andare in ospedale”.
Quello più vicino sta a Isola del Liri. Mi sembra un viaggio infinito mentre mio zio ci accompagna. Aldo non si è voluto sedere da solo. Mi sta in braccio e si lamenta. Un gemito sommesso, dolce come è lui di solito. Quasi timido, incerto. Io ho il batticuore ma non parlo perché ai figli non si deve mai mostrare il dolore. Quando arriviamo è semi svenuto, è bianco, assopito, remissivo. Lo bacio, non so se per fare coraggio a lui o per dare più forza a me. Lo prende subito in carico un infermiere. E’ deciso nei modi, si muove con sicurezza. Si vede che sa cosa fare, di certo non sarà la prima volta che gli capita tra le braccia un bimbo con l’appendicite.
Mi hanno detto di sedermi in sala d’attesa. Sento una forte puzza di alcool. Mi sembra un tempo troppo lungo quello da quando aspetto. Allora a un tratto mi metto in piedi, pure perché ho il cuore in gola. Mi alzo e busso a una porta. Non so chi mi risponderà, non so se è la porta giusta. Mi apre l’infermiere di poc’anzi, ha l’aria indaffarata. Lo sguardo duro di uno che è stato interrotto mentre stava facendo cose della massima importanza. Gli sussurro: “il mio bambino…” , e lui mi guarda, d’un tratto distende l’aria da guardiano e dice “deve essere operato, signora”. E mentre termina la frase, un omino alle sue spalle, che non riesco a vedere bene in faccia perché indossa una mascherina, fa eco: “Tutto a posto signora, ora facciamo l’anestesia, togliamo l’appendice e torna tutto a posto”. Nemmeno si volta a guardarmi, mentre parla, continua a toccare mio figlio, steso, immobile, su una barellina. "Tutto a posto", ha detto così, e sembra cosa da nulla, perciò torno alla mia seggiola. Sospiro con prepotenza, vorrei che mi sentisse tutto l'ospedale.
I pensieri mi travolgono, schiaffeggiano la mia testa. Mi sento rimbambita, ho addosso una curiosa impazienza. Lo operano. Gli apriranno la pancia. Forse basta un taglietto. Ho sempre sentito dire che l’appendice è piccina. Povero cucciolo, perciò si lamentava. Aveva dolore, e chissà che malessere. Povero amore, amore della mamma. Se Dio vuole dopo saremo di nuovo a casa. Che rabbia mi fa quel dottore. Non mi ha nemmeno guardato in faccia. Zio aspetta fuori, da un secolo ormai. Forse ha fumato tutte le sigarette che aveva perché a un certo punto mi dice: “mo’ torno”, e ho immaginato andasse a ricomprarle. Mi dispiace, lo so che è una scocciatura, ma Aldo sta male. Dove altro avrei potuto portarlo? Preparerò la minestrina: tutti i malati mangiano la minestrina. La darò anche al mio bambino, leggera leggera, appena rinforzata da un mestolo di brodo. Deve tornare in forze, il piccolino, e deve crescere, chissà che bell'ometto!
Non c’è stato molto via vai oggi. Non mi sembra molto affollato questo ospedale. O forse sono io che non vedo nessuno, perché sono qui da ore e aspetto. Aspetto che mi rendano il mio bambino. C’è solo quest’odore di alcool. A un certo momento sembrava misto all’odore della minestra. Forse hanno servito il pranzo. Che tristezza stare qua dentro, che tristezza essere malato.
Fa caldo ma io ho i brividi. Credo di essermi assopita, perché a un tratto è arrivata un’infermiera, aveva il camice sporco di sangue e portava la mascherina. Ha detto signora, con lo sguardo misericordioso. Sarà madre anche lei e può capirlo, quello che sto provando. Non ha detto altro ed io mi sono alzata, l’ho seguita quasi per istinto, mi ha portato in una piccola sala.
Il mio bimbo era steso su un lettino, gli occhietti dolci chiusi dal torpore. Il medico mi dice dell’operazione, che tutto è andato bene, che meno male, siamo venuti in fretta, chè l’appendicite stava per scoppiare. Io nemmeno capisco tutto quello che mi riferisce. Non gli presto troppa attenzione. Continuo a guardare il mio bambino e vorrei stringerlo forte e baciarlo tutto. Al suo fianco c'è un signore, ha anche lui il camice verde. Ha anche una cuffietta in testa e la mascherina. Armeggia con la flebo, ha un'aria seria. Ogni tanto lo sento imprecare sotto voce. Non alza la testa dalla nostra parte ma continua ad agitarsi. E' vicino al mio bambino, forse la flebo è messa male. Poi quello che penso essere un dottore si schiarisce un po' la voce, come chi non sa bene se sia il momento giusto per parlare. E parla. Dice che non capisce. Non capisce perché da un quarto d’ora stanno provando a svegliare il mio bambino e lui invece continua a dormire. Vedo che gli tasta il polso, controlla il petto con il suo strumento. Poi getta un’occhiata al medico e indugia. Indugia ad abbassare lo sguardo quasi per richiamare attenzione. Allora un morso s’impadronisce del mio ventre e sento che qualcosa non va come dovrebbe. Aldo è inerte, non risponde ai solleciti, è una lastra di marmo color avorio.
Mi hanno detto di non piangere. Soprattutto di non urlare. Mi hanno detto che altrimenti non me lo avrebbero fatto vedere, non mi avrebbero permesso di portarlo a casa, stargli vicino, abbracciarlo e cullarlo come facevo quando era ancora piccino.
E' morto il mio bimbo. Non ha più aperto gli occhi, non si è svegliato. I medici e gli infermieri non sanno perché, mi stavano tutti intorno mentre capivo quello che non avrei dato modo a nessuno di dire. Il mio bambino è morto. Non c'è nessun altro che debba pronunciare questa frase. Solo ieri giocava, solo stamattina mi cingeva con le sue braccia il collo e la testa, solo qualche ora fa sentivo la pesantezza del suo fiato, il calore tenero del suo mento sul mio petto. Il mio bambino è morto. Come può tutto questo essere vero? Non capisco, allora grido. Mi butto per terra, chiedo aiuto. Aiuto per cosa, aiuto da chi? D'un colpo non esiste più niente, esiste solo il dolore. Non sento il caldo, il freddo, i brividi, la puzza di alcool, l'odore di minestra. Non sento l'impazienza, non sento la sete. Non sento. Dolore. Solo dolore. Esplode come un vulcano, emerge dai pori della mia pelle, da ogni parte del mio corpo. Dolore. Il mio bambino. Lo chiamo. Ascolterà la sua mamma, sentirà la mia voce, si risveglierà alle mie grida. Ma è inerme. Piccolo e bianco, dolce e inerme. Non ho mai baciato un morto e all'improvviso sento che lo sto facendo. Non fa paura e non fa impressione. Lo stringo forte, lo divoro con i miei baci sulla fronte, su quelle guance morbide. Amore, amore, amore. Perché Dio mio, perché. Perché mi hai strappato il cuore? Perché mi hai cavato le viscere dal ventre? Perché Signore, perché? Non è vero, e questo non accade veramente. Non è reale, non è possibile. E' solo un sogno e mi sveglierò. Ti prenderò per mano Aldo, ti porterò a casa...
Mi dicono di stare zitta. Me lo dicono con dolcezza, all'inizio. Poi quando capiscono che il mio lamento è senza fine, insistono con meno pazienza. Cani. Sono cani. Non vogliono impicci, non vogliono sapere. Il bambino è morto, questo basta. Non sanno come e non sapranno mai, non lo vorranno mai sapere. Perché sono certa che qualcuno ha sbagliato, ma adesso non conta niente. Non conta perché Aldo è morto. L'ho chiamato e non risponde. Cosa m’importa di quello che impareranno loro, cosa m’importa dei loro sbagli. Il mio bambino è morto, voglio morire, adesso, anch'io.
Non ricordo niente. Non chiedete più niente. Non ricordo come sia andata mentre facevo il mio ultimo viaggio verso casa, in braccio il mio bimbo senza vita. Non ricordo se ho pianto, se ho urlato, se sono svenuta o se ho minacciato di uccidermi. Ho tenuto in braccio il mio bambino, l'ho tenuto in braccio per l'ultima volta. Sussurravo una canzone. Speravo, oh quanto! Speravo che aprisse gli occhietti e mi chiamasse: "Mamma!".
E' così che sono morta.
Ho cinque figli. Cinque figli e un buco nel cuore. Cinque figli e cinque pugni. Cinque. Li ho amati tutti. Ho rinunciato al mio cuore. L'ho consegnato ai miei figli, è l'unico regalo che posso fare. Perciò sono morta, capite? Per i miei figli. Sono quattro, l’ho già detto? Però erano cinque.
Ho sorriso di nuovo al tuo primo vagito. Non ho saputo darti un altro nome. Perdonami, ma sappi che ti amo. Eccoti, con i tuoi occhi scuri e l'aria furbetta. Ecco la mia bambina, ecco di nuovo l'urlo della vita. E sei così bella che non posso che ridere. Rido per Alda, la mia bambina.
Nonna Gelsomina in braccio alla madre Benedetta Iannucci |
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Alda Martine
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Giovanni e Gelsomina (centro), Rossano e Riccardo (basso), le cugine Franca e sua madre (alto)
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Simona e il cugino Rossano (sullo sfondo la vecchia casa di Gelsomina)
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Nonna Gelsomina
Barbara MOLLICONE
Ti sei mai chiesto…
Ti sei mai chiesto se nasci per occupare un vuoto? Se nasci per scontare una morte? Ci sono storie di famiglia che si tramandano con un certo pudore, sono intime, nascoste, non dette, con una punta di angoscia che passa di madre in figlia. Poi capita che vanno fuori, in giro, oltrepassano il lessico familiare e quasi non sono più personali, ma restano profondamente umane. Ci pensi e cominci a chiederti anche tu se non ci sia un equilibrio o una trama più grande e se quello che chiamiamo caso sia un destino difficile da decifrare. Tutto quello che scrive Barbara è reale. E’ una storia di viaggi, ritorni, di immigrazione, di dolore, di luoghi lasciati e ritrovati, ma c’è un punto cieco, un incrocio, che ti porta nei sentieri delle grandi domande, quelle metafisiche, con i temi classici della grande letteratura: le coincidenze, il vuoto e il pieno, il doppio. E tutto questo ti cade addosso con una leggerezza che spiazza. E’ una storia da raccontare in una sera d’inverno, davanti al fuoco, con i brividi che ti segnano la schiena, in un casolare di campagna, con poca luce e il vento che scuote una finestra e ti fa sussultare. Non è paura. E’ smarrimento. E’ quel sentimento strano che ti fa leggere la tua vita come un viaggio verso qualcosa che hai già vissuto. L’allegra malinconia dell’eterno ritorno.
Vittorio MACIOCE
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