Qualche mese fa sono stato contattato da un’amica di Roma che sta realizzando un progetto di ricerca sugli italiani all’estero, mirato a studiare gli effetti della nostalgia. Mi invia un link a un questionario, queste sono alcune delle domande: In poche e semplici parole, come definiresti la nostalgia? Quando è stata la prima volta che ricordi di aver provato nostalgia? Quando è stata invece l’ultima volta?

Da due anni vivo stabilmente all’estero. Da quasi dieci non vivo nel mio paese natale. Nonostante ciò non posso negare che questo questionario mi abbia messo in seria difficoltà. Non mi era mai capitato di riflettere sulla nostalgia da emigrante, se non in riferimento ad altri. E a dire la verità leggere questo questionario mi mette in una condizione decisamente scomoda, tanto che comincio a pensare di essere un mostro insensibile, apatico, atarassico.

Sono davvero cosi insensibile da non riuscire a rispondere a nemmeno una di queste domande?

Rimugino sul questionario cercando di trovare delle risposte. Effettivamente la nostalgia la provo, non sono un mostro. Provo nostalgia per le persone, per alcuni periodi della mia vita, per alcune esperienze. Provo nostalgia per il futuro, quella che i portoghesi chiamano saudade.

La stanza nella quale ho vissuto il primo anno a Roma, nel 2009

Ma non basta. Faccio il mio classico giro di telefonate tra i miei amici, alla ricerca di maggiori informazioni. “Bah, nostalgia? Forse delle mozzarelle!” oppure “Se dovessi provare nostalgia per il mio paese probabilmente la interpreterei come un campanello d’allarme che qualcosa sta andando storto e che dovrei tornare” o anche “quale paese?”.

Certo, penso, sono le risposte di una generazione svezzata a televisione americana e fumetti giapponesi, cresciuta a musica inglese e cucina cinese, maturata con Erasmus e scambi culturali. Ma soprattutto sono le risposte di una generazione che non scappa da una guerra, non ha sofferto fame o epidemie, non sta emigrando per poter far sopravvivere i propri cari, non subisce persecuzioni politiche, culturali o religiose.

Sono le risposte di una generazione che ha la possibilità di scegliere. Sono le risposte della mia generazione.

La stanza tre metri per due nella quale ho vissuto gli ultimi due anni a Roma

Certo, è impossibile generalizzare. Ci sono ancora quelli che scelta non hanno, che sono costretti ad andarsene per cause di forza maggiore, e che probabilmente saprebbero rispondere meglio di me al questionario inviatomi. Ed esistono anche coloro che non dispongono nemmeno del poco che serve per trasferirsi all’e- stero, e che vivono una sorta di nostalgia di riflesso, costretti a vivere in un posto che non hanno scelto. Ma tutto questo nulla toglie al fatto che nonostante molti della mia generazione vadano all’estero alla ricerca di maggiori opportunità, di un salario più alto, di una crescita personale, di una formazione differente, il senti- mento di nostalgia che proviamo non è paragonabile a quello che provava il padre di famiglia con la valigia di cartone appena sbarcato su Liberty Island.

Bene o male, molti di noi sono emigrati per scelta e non per obbligo o necessità. Non avremo il 100% di libertà nella scelta, non sarà tutto rose e fiori, ma abbiamo a disposizione strumenti che fino all’altro ieri esistevano solo nella fantascienza e che rendono la scelta di vivere all’estero più semplice di prima. Siamo una generazione abituata a comunicare in tempo reale con il resto del mondo, che si stupisce di come un interre- gionale possa costare il doppio di un volo per Berlino, e che si trova in difficoltà quando qualcuno gli chiede di rispondere a un questionario sulla nostalgia.

Il monolocale nel quale ho vissuto a Pechino

Ma è anche una generazione che, nonostante gli stimoli provenienti da ogni angolo del mondo, non perso le radici. La pasta la continuiamo a scolare al dente, continuiamo a vedere Sanremo per indignarci, leggiamo giornali italiani e siamo sempre felici di poter parlare la nostra lingua. In aggiunta a tutto ciò abbiamo im- parato a cucinare i piatti dei paesi che ci hanno ospitato, seguiamo i festival internazionali, leggiamo stampa estera e siamo sempre felici di praticare un’altra lingua.

La risposta della società a quello che sembra quasi un esodo (circa 300 000 italiani si sono trasferiti all’stero nel solo 2016 – Ocse) è sicuramente immatura e non tiene conto del cambiamento in atto. Ci sono i “si vive meglio all’estero, l’Italia è un paese finito, hai fatto bene a andartene”. Poi ci sono i “vai a Londra a fare il lava- piatti? tanto vale rimanere qui”. E ci sono, seppur in misura minore, anche i “te ne sei andato senza dare il tuo contributo al paese”. Sono le parole di chi vede con rabbia, invidia o indifferenza quella che per moltissimi è un’esperienza formativa importante, un investimento culturale, una scelta che comporta sacrifici e soddisfazioni.

La vista dall’appartamento in cui vivo attualmente, a Barcellona

Come avrete ormai capito, il questionario sulla nostalgia da cui è nato questo piccolo articolo, non sono riuscito a compilarlo tutto. Evidentemente non sono il miglior candidato per rispondere a questo genere di domande. Avrei potuto parlare di altri tipi di nostalgia, non quella legata alla distanza con il mio paese. Tutta- via mi ha aiutato, mi ha permesso di riflettere, di scrivere, di esternare quello che è un sentimento molto più complesso della semplice nostalgia e che probabilmente oggi non viene trattato sufficientemente nel dibattito pubblico, se non a colpi di luoghi comuni.

Concludo con una famosa poesia di Juan Ramón Jiménez, poeta premio Nobel spagnolo, recita: “Raíces y alas, pero que las alas arraiguen y las raíces vuelen”.

Radici e ali. Ma che le ali mettano radici e le radici volino.

Jacopo Rufo

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