La rimozione di una storia di luci, ombre, vergogne di Gian Antonio Stella

La feccia del pianeta, questo eravamo. Meglio: così eravamo visti. Non eravamo considerati di razza bianca nei tribunali dell'Alabama. Ci era vietato l'accesso alle sale d'aspetto di terza classe o dovevamo tenere nascosti i bambini in Svizzera. Finivamo appesi nei pubblici linciaggi con l'accusa di fare i crumiri o semplicemente di essere «tutti siciliani».

Immigrati italiani sul ponte di navi dirette a New York.

«Bel paese, brutta gente.» Ce lo siamo tirati dietro per un pezzo, questo modo di dire diffuso in tutta l'Europa. Oggi raccontiamo a noi stessi, con patriottica ipocrisia, che eravamo «poveri ma belli», che ci insediavamo senza creare problemi, che eravamo ben accolti o ci guadagnavamo comunque subito la stima, il rispetto, l'affetto delle popolazioni locali. Ma non è così.

  Immigrati italiani nel dormitorio di terza classe   Immigrati italiani in arrivo al porto di Buenos Aires

 

Italiani nel centro di Ellis Island in attesa del permesso di ingresso o di reimbarco (notare la rete di contenimento)

Controlli sanitari nel centro di Ellis Island

Primi timidi passi nella nuova terra

 

Gruppo di immigrati che escono dal centro di Ellis Island

Certo, la nostra storia collettiva di emigranti è nel complesso molto positiva. Abbiamo dato alla Francia pittori come Paul Cézanne il cui vero cognome era Cesana, statisti come Léon Gambetta, scrittori come Emile Zola. Abbiamo dato all'Argentina patrioti quali Manuel Belgrano, grandi musicisti del tango come Astor Piazzolla, calciatori come Antonio Valentin Angelillo, mitici piloti automobilistici come Juan Manuel Fangio, industriali come Agostino Rocca. Abbiamo dato all'Australia personaggi mitici come Raffaello Carboni, produttori vinicoli come Dean De Bortoli politici come il governatore del Victoria James Gobbo o il sindaco di Sydney Frank Sartor. E poi abbiamo dato all'Ungheria eroi nazionali come Pippo Spano. Al Venezuela libertadores come quel Simon Bolivar che aveva tra gli avi un Ponte che veniva da Genova e un Graterol arrivato da Venezia. All'Inghilterra drammaturghi come Nicola Grimaldi. Alla Russia decine e decine di operai specializzati, finiti come il friulano Domenico Indri addirittura in Cina a costruire la Transiberiana. 

Per non dire dell'America. Senza contare gli esploratori Cristoforo Colombo o Giovanni Caboto, le abbiamo dato alcuni degli uomini di spicco della sua storia. Come il toscano Filippo Mazzei, un apostolo dell’indipendenza americana. E come non ricordare Lorenzo Da Ponte, che fondò la cattedra di letteratura italiana al Columbia College, destinato a diventare la Columbia University? Per non dire di Edoardo Ferraro, che durante la guerra civile fu l'unico generale a comandare una divisione composta interamente da neri liberati. O padre Carlo Mazzucchelli, che nel 1833 predicava tra i pellerossa e per primo mise per iscritto la lingua sioux. O Antonio Meucci, che inventò il telefono. O ancora Fiorello La Guardia che ricordò per tutta la vita l'insulto di un razzista che deridendo gli ambulanti italiani che giravano con l'organetto gli aveva gridato: «Ehi, Fiorello, dov'è la scimmia?», diventando il più popolare dei sindaci di NewYork.

Non c'è paese che non si sia arricchito, economicamente e culturalmente, con l'apporto degli italiani. In 27 milioni se ne andarono, nel secolo del grande esodo dal 1876 al 1976. E tantissimi fecero davvero fortuna. Come Amedeo Obici, che partì da Le Havre a undici anni e diventò «Mister Peanuts». O Giovanni Giol, che dopo aver fatto un sacco di soldi col vino in Argentina rientrò e comprò a Treviso una immensa azienda agricola. O Geremia Lunardelli che, come racconta Ulderico Bernardi in Addio Patria, arrivò in Brasile senza una lira e divenne il re del caffè carioca.

 

  Venditori di pane   Suonatori d'organetto

Quelli sì li ricordiamo, noi italiani. Quelli che ci hanno dato lustro, che ci hanno inorgoglito. Gli altri no. Quelli che non ce l'hanno fatta e sopravvivono oggi tra mille difficoltà nelle periferie di San Paolo, Buenos Aires, New York o Melbourne fatichiamo a ricordarli. Abbiamo perduto 27 milioni di padri e di fratelli eppure quasi non ne trovi traccia nei libri di scuola. Erano partiti, fine. Erano la testimonianza di una storica sconfitta, fine. Erano una piaga da nascondere, fine. Soprattutto nell'Italia della retorica risorgimentale, savoiarda e fascista.

  Minatori bambini   Secondino, il filatore di 11 anni

Se ne fotteva, l'Italia, di quei suoi figli di terza classe. Basta estrarre dai cassetti i rapporti consolari, che avevano come unica preoccupazione la brutta figura che ci facevano fare i nostri nonni, i nostri padri, le nostre sorelle perché mendicavano o erano sporchi o facevano chiasso o andavano alla deriva verso i lupanari e la delinquenza.

  In miniera   Rosie Passarella, raccoglitrice da quando aveva cinque anni

Di tutta la storia della nostra emigrazione abbiamo tenuto solo qualche pezzo. Le lacrime per i minatori mandati in Belgio in cambio di 200 chili l'uno di carbone al giorno e morti in tragedie come quella di Marcinelle. I successi di manager alla Lee Jacocca, di politici alla Mario Cuomo, di uno stuolo di attori da Rodolfo Valentino a Robert De Niro, da Ann Bancroft, a Leonardo Di Caprio. E su questi pezzi di storia abbiamo costruito l'idea che noi eravamo diversi. Di più: eravamo migliori.

NON È COSÌ. Non c'è stereotipo rinfacciato agli immigrati di oggi che non sia già stato rinfacciato, un secolo o solo pochi anni fa, a noi. «Loro» sono clandestini. Lo siamo stati anche noi: a milioni. «Loro» Si accalcano in osceni tuguri in condizioni igieniche rivoltanti? L'abbiamo fatto anche noi.

Insediamento di immigrati italiani in Brasile

«Loro» vendono le donne? Ce le siamo vendute anche noi, per fino ai bordelli di Porto Said o del Maghreb. “Loro” Sfruttano i bambini? Noi abbiamo trafficato per decenni coi nostri, cedendoli agli sfruttatori più infami. “Loro” rubano il lavoro ai nostri disoccupati? Noi siamo stati massacrati, con l’accusa di rubare il lavoro agli altri. “Loro” portano criminalità? Noi ne abbiamo esportata dappertutto. “Loro” fanno troppi figli ? Noi spaventavamo allo stesso modo gli altri.

Perfino l'accusa più nuova dopo l'11 settembre, cioè che tra gli immigrati ci sono «un sacco di terroristi», è per noi vecchissima: a seminare il terrore nel mondo, per un paio di decenni, furono i nostri anarchici. Come Mario Buda, un fanatico romagnolo, il 16 settembre 1920 fece saltare per aria Wall Street. Furono contati 33 morti, oltre 200 feriti e danni per due milioni di dollari dell'epoca. Decine le bombe, la più devastante nella sede della polizia di Milwaukee, 10 agenti uccisi, fatte scoppiare in quella violenta stagione americana.

Un cortile comunitario che le famiglie italiane condividevano nelle loro case a Buenos Aires

Questa la doppia versione di tutta la storia dell'emigrazione italiana: una storia carica di verità e di bugie. In cui non sempre puoi dire chi avesse ragione e chi torto. Eravamo sporchi? Certo, ma furono infami molti ritratti dipinti su di noi.

  Vignetta pubblicata dal giornale australiano Italo-Australian   Vietato ai cani e agli italiani


 

"La discarica senza legge": l'invasione giornaliera dei nuovi immigrati direttamente dai bassifondi d'Europa (Judge, 6/6/1903)

Certo, non possiamo negare d'avere importato noi negli States la mafia e la camorra, ma era vergognoso accusarci di essere tutti mafiosi La verità è fatta di più facce. Sfumature. Ambiguità. E SE ANDIAMO A RICOSTRUIRE L'ALTRA METÀ DELLA NOSTRA STORIA, SI VEDRÀ CHE L'UNICA VERA E SOSTANZIALE DIFFERENZA TRA «NOI» ALLORA E GLI IMMIGRATI IN EUROPA OGGI, fatta eccezione per l'esportazione della violenza religiosa, un fenomeno che riguarda una minoranza del mondo islamico ma non ha mai toccato gli italiani (a parte il contributo al terrorismo irlandese e cattolico dell'Ira da parte di Angelo Fusco ed altri figli di emigrati a Belfast e dintorni), È QUASI SEMPRE LO STACCO TEMPORALE. NOI ABBIAMO VISSUTO L'ESPERIENZA PRIMA, LORO DOPO. PUNTO.

Detto questo, per carità: alla larga dal buonismo, dall'apertura totale delle frontiere. Ma alla larga più ancora dal razzismo. Dal fetore insopportabile di xenofobia che monta in una società che ha rimosso una parte del suo passato. Certo, un paese è di chi lo abita, lo ha costruito, lo ha modellato su misura della sua storia, dei suoi costumi, delle sue convinzioni politiche e religiose. Di più: ogni popolo ha il diritto, in linea di principio ed entro certi limiti, di essere padrone in casa propria, di pretendere il rispetto dei suoi valori fondanti (la democrazia, il rispetto della donna, la laicità dello stato, l'uguaglianza di tutti gli uomini...). In un mondo di diffusa illegalità come il nostro, possono essere invocate l'espulsione dei delinquenti, la mano pesante con chi sbaglia.

La xenofobia, però, è un'altra cosa. «Ma perché questa parola deve avere un significato negativo?», ha sbuffato testualmente in televisione il presidente del consiglio Silvio Berlusconi nel maggio 2002. La risposta al vocabolario Treccani: xenofobo: «Chi nutre odio o avversione indiscriminata verso tutti gli stranieri».

Nessuna confusione. Una cosa è la legittima scelta di un paese di mantenere la propria dimensione, le proprie regole, i propri equilibri, un'altra giocare sporco sui sentimenti sporchi. Una cosa è sbattere fuori quei musulmani fanatici potenzialmente terroristi, un'altra spargere piscio di maiale sui terreni dove dovrebbe sorgere una moschea. Una cosa irrigidire i controlli sugli albanesi, un altro dire che tutti gli albanesi sono ladri o papponi.

Vale per tutti, dall'Australia alla Patagonia. Ma più ancora dovrebbe valere per noi. Che dovremmo ricordare sempre come l'arrivo dei nostri emigrati con i loro fagotti e le donne e i bambini venisse accolto dai razzisti locali: con lo stesso urlo che oggi viene cavalcato dagli xenofobi italiani, per motivi elettorali, contro gli immigrati.

Estratto dall'Introduzione del libro "L'Orda" di Gian Antonio Stella

 

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