Non datela per scontata. Una valle deve sentirsi, annusare i suoi confini, trovare le strade, che un po’ sono come i suoi occhi, le sue mani, mostrare il suo volto fuori e allargare lo sguardo al di là dell’ultimo orizzonte e poi battere, il cuore, il suo tempo, il suo ritmo, il suo sound, solo alla fine arrangiare la sua melodia. Riconoscersi.

La valle di Comino ci ha messo tempo. O forse a un certo punto si è dimenticata, si è persa. Capita. Capita quando per sentirti più sicuro ti accontenti della miopia, quando il cielo ti appare troppo lontano e non ti sorprendi più a guardarlo, quel cielo cosi luminoso di notte che senza dubbio è una mappa, con le stelle che ti baciano sul naso, e solo qui se ci pensi ti viene voglia di abbracciarle. Poche volte hai visto stelle così vicine. E’ che comunque per fissarle devi alzare la testa. C’è voluto tempo. Qualcuno più cinico o più ottimista dice che ci voleva la crisi. Questa. Questa che ti ha messo con le spalle al muro, questa che ha cancellato la pioggia di soldi pubblici che arrivavano per esaudire piccoli e meschini ex voto. Questa che ha tolto potere alle clientele. Questa che ti fa paura. Perché fa paura. E’ così forse che abbiamo cominciato a guardarci intorno. Ci sono certe sere d’inverno in cui ti trovi a fare i conti con il deserto, ti sembra quasi di sentire i passi dei fantasmi, la sensazione del vuoto. Il terrore di camminare in paesi perduti e ti accorgi che sei a un crocicchio del destino. Questa o sarà valle o non sarà.

E’ come la pallina di Match Point, il film di Woody Allen, basta un sussurro per far cadere il futuro da una parte o dall’altra, rassegnarsi a un pugno di paesini dormitorio, hinterland di una città martire e di un’industria lasciata lì come una cattedrale post­moderna, Fiat lux, come contraltare al monastero distrutto e ricostruito, con l’unica speranza che l’Ora et Labora possa funzionare ancora, oppure riconoscersi e sfidare il mondo. La Valle di Cornino sta scegliendo di accendere tutte le luci. Non è mai stata così magica. Adesso basta solo un soffio di fortuna.

Quando hai scoperto la valle? La prima volta che hai provato a guardarla con gli occhi degli altri, quelli che arrivano, gli stranieri, gli ospiti, passati da qui per raccontare storie e ripartiti inebriati di nostalgia e bellezza. Come ti disse quella volta Gianfranco Calligarich. “Questi paesi me li porto dietro come una breve filastrocca di bellezza o, se li separi in tre gruppi, come la difesa, il centrocampo e l’attacco di una squadra che ti sta a cuore. Te ne accorgi quando, parlando con qualcuno di luoghi da vedere, escono improvvisamente dal loro nascondiglio per materializzarsi coi loro nomi sulle tue labbra. Esempi di una bellezza che conosci solo tu. Alvito, Atina, Picinisco, Vicalvi, Settefrati, San Donato, Casalvieri, Casalattico, Villa Latina, Vicalvi, Posta Fibreno, Gallinaro, Settefrati, Belmonte, Campoli Appenino, Fontechiari, Terelle”.

Tu in questa bellezza ci sei nato, ma per te era solamente il mondo, il tuo mondo. Sei dovuto partire e tornare, perderti e tribolare, seppellire padre e madre e scoprirti orfano per stringere tra le mani questo pugno di terra e giurare che non l’avresti più abbandonata per conoscere il suo sapore. Per riconoscerti. E quando hai paura di non farcela è qui che ti vedi passare davanti un capriolo, che sbuca dal buio, di notte, camminando lento, senza neppure guardarti, tanto da spingerti ad abbassare i fari, per non smarrire l’incanto, come se lui fosse un patrono, come quelli di Harry Potter. Magia.

Come il coraggio che trovi ascoltando l’ululato dei lupi nei giorni della neve o la compagnia di un barbagianni, che le sere d’estate va a caccia di pipistrelli volando tra il campanile e i tetti del palazzo ducale. È la carezza di una vecchia contadina che sfiorandoti la guancia ti sussurra, quasi per proteggerti: non ti arrendere, hai fatto tanto. È qui che hai imparato a riascoltare le storie. No, non quelle lontane che ti porti nel cuore dall’Albania o dal Danubio, non quelle dei tuoi viaggi e neppure i volti della commedia umana che ti tocca raccontare per mestiere. Quelle che stavano qui. Le facce di quelli che resistevano qui. Dopo anni passati a seguire le tracce di Woody Guthrie e di tutti i cantastorie della frontiera americana, fino ad esplorare i confini del post moderno, perdersi nei giochi ciechi di Borges, strappando brandelli di realtà al cosmo scarnificato e virtuale del ventunesimo secolo e poi accorgersi che in fondo quello cercavi è nella ninna nanna, Nenna sea, di un professore di liceo cresciuto nelle cantine di San Donato, con un cappello da sudista sulla testa, una chitarra, e un volto scarnificato dalla poesia, con quel nome antico e la voce che sa di vino. La canzone del sandonatese presuntuoso è la mia musica. Non ci sono dubbi. E pazienza se sfotte gli alvitani. È la storia della valle. Sono le mie parole quelle perdute in dialetto, che imparo con quegli sprazzi di umanità che Gianfranco Renzi dipinge sulla scena. Sono i canti dei pastori che Massimo Antonelli mi racconta con le cornamuse dei Calamus.

Canti di pastori erranti, canti di notte, canti alla stesa, canti taglienti, di solitudine e d’amore, canti di femmine che sfidano il maschio, strappandosi le parole dalla carne, con quei polpacci sodi e orgogliosi che hanno le donne abituate a camminare in salita. È la voce di Domenico Buccini detto Mingo, un parrucchiere che ha regalato vino, talento e malinconia, lasciando per sé soltanto il primo. Sono le sue parole messe in croce, che se le ascolti bene ti ricordano l’assurdo di Ionesco, con il disincanto e l’ironia che solo questo dialetto ti può dare.

È qui che riscopri la bellezza di queste genti. I volti e i corpi degli uomini di Picinisco, che sanno di Arcadia, li trovi nei musei e nei caffè di Londra, alle pareti. Molti di loro sono partiti come artisti di strada, lungo strade che portavano al Nord dell’Europa, senza sapere di essere quello che i pittori cercavano. Sono storie come quella di Orazio Cervi, del suo lavoro per lo scultore Thornycroft, le chiacchiere con D. H. Lawrence, che quando si sposa per la terza volta, fa tappa proprio qui, nella contrada Le Serre, dove oggi all’ombra di una Caciosteria si svolgono d’estate corsi di scrittura creativa, e qui a Picinisco scrive La ragazza perduta. È nella valle che artisti francesi, tedeschi e inglesi passano come tappa sconosciuta del Grand Tour. Perché è qui che si passa se vuoi andare a Sud. E qui ti fermi, ti fermavi, se resti incantato da certi occhi scuri, dai capelli che registrano tutte le sfumature della natura, da pelli ambrate e piedi scalzi.

Orazio Cervi posa per H. Thornycroft nel 1888-1890   Ernest Hébert, Les filles d’Alvito, 1855

È qui che per quattro mesi, nel 1853, passa Ernest Hébert e trova queste due ragazze, quelle che adesso vedi a Parigi, al museo D’Orsay, Les filles d’Alvito. Storie. Montmartre, Montparnasse, “la vie de bohème’’. È lì che stavano le modelle della valle. Al centro del centro del mondo, dalla metà dell’Ottocento fino al tramonto della Belle Epoque. Alcune ballano il can can nel tempio dionisiaco del Moulin Rouge, altre si perdono nelle strade, tante aprono una crèmerie o un piccolo ristorante, di qualcuna resta il nome: Rosalia, Carmen, Anna, Giacinta, Maria. Laurette, o meglio, Loreta. Storie.

Filippo Colarossi si trasferisce con il fratello Angelo, tutti e due di Picinisco, a Rue de la Grande Chaumière n. 10 a Montparnasse. È uno scultore. Apre un’accademia. È la prima in cui sono ammesse le donne come pittrici. Qui Modigliani incontra Jeanne, storia d’amore di strazio, febbre, fame, maledizione. Il ristorante dove Modi paga il pranzo con le sue donne dal collo lungo è Chez Rosalie. La proprietaria è una ex modella di Bouguereau, Carolus-Duran e Whistler. Si chiama Rosalia Tobia, anche lei di Picinisco. Il locale è in rue Campagne Première n.3, quattro tavoli rettangolari dal piano in marmo e sei sgabelli, non sedie, a tavolo, quindi una capienza di 24 avventori.

Rosalia Tobia di Picinisco in un dipinto di Bouguereau

I clienti sono soprattutto muratori italiani e pittori senza un soldo in tasca. Cesare Vitti è di Casalvieri, la moglie Maria Caira è di Gallinaro e la loro accademia è al al 49 di Bd. Montparnasse. Tra i professori che insegnano lì c’è Paul Gauguin. Maria ha due sorelle, Anna e Giacinta, modelle. Laurette invece è la modella meridionale con le ciocche come anguille. Si chiama Loreta e viene anche lei da Gallinaro. Arriva a Parigi nell’autunno del 1916 a guadagnarsi la vita. Si mette nelle mani di Henry Matisse e sarà la sua musa. La Laurette con la tazza di caffè è lei. La ragazza di Gallinaro. Ecco, ora lo sai, è qui la bellezza vera, non edulcorata, la bellezza che sa di carne e speranza, di formaggio, marzolino, di orapi, di fagioli cannellini, di tartufo, di pane e vino, di gelato alla crema, di visciole, di pasta di mandorla. È da Casalattico e Picinisco che si parte alla fine dell’Ottocento per la Scozia e per l’Irlanda. E sono questi immigrati commercianti che aprono i chioschetti di fish and chips, pesce e patate, un piatto nazionale britannico che sa di Valcomino. È qui in questa valle che troverete il torrone di pasta di mandorla ricoperto di cioccolato fondente. È da qui, da Alvito, che parte (omonimo e zio) Vittorio Macioce per la pasticceria La Tour a Roma, per fare quei dolci che serviranno Casa Reale. Ed è da lì che torna per inventare il segreto che lega mandorle e cioccolato. È quasi lo stesso viaggio che qualche anno prima aveva fatto Giustino Ferri, giornalista e scrittore, di cui il poeta Gerardo Vacana è il gran custode. Ferri che da Picinisco va a passare le serate al Caffè Bussi con D’Annunzio, Capuana e Pirandello e scrive sulle riviste letterarie di quel primo Novecento carico di futuro. Se andate a leggervi il “Meridiano’’ Mondadori sul giornalismo troverete qualcosa di lui. È il primo giornalista che riconosce il cinema come arte. Qualcuno un secolo dopo farà la stessa cosa con i videogame.

Questa è la tua terra di mezzo. È una terra di mezzo perché con un’ora e mezza di auto vai a Roma o Napoli. È una valle antica, valle di Comino, il confine è segnato dalle cicatrici della linea Gustav, quella del fronte della seconda guerra mondiale. Le casematte costruite dai tedeschi ci sono ancora. Solo che adesso quella linea segna un altro confine, da lì in poi comincia praticamente Gomorra. Non è che te lo dice qualcuno. Lo sai e basta. Oppure se ci passi in macchina te ne accorgi guardando fuori dal finestrino. Noi siamo il verde, poi a un certo punto comincia il grigio di periferie casertane, di casermoni, di centri commerciali troppo grandi, di strade stradali che di notte diventano suk della coca, con le luci delle auto in sosta che comprano tanto al chilo, come se fosse la cosa più normale del mondo. Noi queste cose le guardiamo al di qua del confine e ci auguriamo che quelle vecchie “casematte” tedesche reggano, come simbolo, come talismano, come linea del fronte. Questa crisi senza fine ci sta però mettendo alla prova e ci troviamo di fronte a una di quelle svolte del destino, a un crocicchio, simile a un lancio di moneta. Testa o croce? Croce è un futuro da periferia desolata di Gomorra, testa è scommettere sulle nostre risorse. Puntare sul verde, sulla natura, su una valle dove si può camminare sulle tracce dell’orso o ascoltare di notte l’ululato dei lupi, su percorsi affascinanti da scalare in mountain bike o sulle arrampicate fino al monte Meta, dove all’alba, quando la luce è chiara, si possono vedere i due mari, il Tirreno e l’Adriatico. Si può scommettere sull’economia verde, sul paesaggio, sulla natura e sul fatto che tanta gente cerca luoghi dove correre a piedi, in bicicletta, su strade sterrate o camminare lungo i sentieri del parco, o seguire il corso di un fiume a bordo di una canoa o, temerari, volare con un deltaplano da Forca d’Acero fino al centro della valle.

Qualcuno mi rimprovera di sognare troppo o di giocare con la Valle di Comino come se fosse una sorta di Sim city. Forse. In realtà la penso più come una smart land. Il primo obiettivo del festival era relativamente semplice. Far conoscere una valle particolare, con un forte lato selvaggio (Walking in the wild side, come scriveva Nelson Algren e cantava Lou Reed), illuminandola, accendendo un punto sulla mappa del mondo. In parte ci siamo riusciti. Non solo. La valle delle storie oggi è anche una patria ideale per molti intellettuali, scrittori, architetti, imprenditori. Mi danno una mano, fanno passa parola, credono nel progetto, ne parlano con gli amici. Quello che sogno? Immaginate una valle di laboratori. Lavoro intellettuale e lavoro artigianale, pensiero e nuove frontiere della tecnologia, la forza della natura e quella dell’uomo, non una contro l’altra, ma una per l’altra, e viceversa. Laboratori di sviluppo e sceneggiatura di videogame, di fumetti, di corti cinematografici, di bottega delle favole, con narratori e burattinai, di archiland, come ridisegnare i borghi medievali senza snaturarli, laboratori di scrittura creativa in una caciosteria. Si passa dalle fabbriche fordiste come la Fiat di Cassino a un’economia a misura d’uomo, molto più creativa, leggera, innovativa, veloce delle vecchie manifatture. Se tutto questo avviene in un parco nazionale diventa un simbolo. Un messaggio culturale. La valle delle storie come valle dei makers. In nuovi artigiani, quelli dell’era digitale, qui possono riconoscersi e incontrarsi. Siamo sotto l ’abbazia di Montecassino. E’ lì che nasce il movimento globale del monachesimo con la regola di San Benedetto. Montecassino però è anche il luogo dove gli amanuensi conservano la cultura classica e la conservano per farla arrivare fino a noi. Senza il lavoro dei benedettini avremmo perso molto, quasi tutto. Montecassino è stato di fatto il primo grande hard disk della storia occidentale. Montecassino come un cloud, una nuvola, fatta di materia. Ecco. È qui che si raccontano storie. In questo palcoscenico senza palco e senza barriere, l’ospite è uno di casa e come Ulisse narra la sua storia. Poi la notte le ascolta. Ascolta le nostre. E pensa che Itaca è quel posto che chiamiamo casa.

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