di Maria Iacobone

OLTRE LA SPERANZA (seconda parte)

Il bastimento su cui viaggiano Giovanna trentaquattrenne e i suoi due figli Cesidio e Domenico, di 9 e 7 anni, si chiama Chateau Yquem e salpa da Napoli i primi di maggio del 1899.

In fondo al foglio di bordo n°30 si leggono un po’ a fatica i nomi di Giovanna Di Bona e dei suoi due figli, nella quarta colonna “Alvito” è l’ultima residenza; nella decima colonna “New York” è la destinazione finale; nella dodicesima risulta che le spese di viaggio sono state sostenute dal marito/padre Luigi Esposito. Prima di Giovanna sono registrati altri 3 alvitani maschi Ioli Francesco, D’Aquila Cesidio e suo figlio Loreto di 38, 36, e 14 anni, ma non sono i soli passeggeri alvitani della nave. Sul foglio n°33 ecco due giovanissimi, Cesidio e Felice Martino di 17 e 13 anni, che raggiungono a New York rispettivamente lo zio e il padre in Mott Street.

Il brek li ha portati da Alvito alla stazione di Sora, da qui arrivare a Napoli non è stato facile né comodo, sebbene la tratta ferroviaria Sora-Arce-Roccasecca in uso dal 1891 abbia “abbreviato” i tempi; a Roccasecca, poi, già da qualche decennio passa la linea Roma-Cassino-Napoli ed è necessario aspettare che il treno si annunci con il suo sbuffare, mentre si pensa a quelle montagne e a quella valle così rassicuranti e via via più lontane, alle case umili e traboccanti di calore umano, ai volti tanto cari.

Ma è finalmente tempo di salire sul vagone con i fagotti, quel povero ma indispensabile bagaglio che contiene in abbondanza speranze e illusioni.

Giunti a Napoli, un incaricato della compagnia di navigazione conduce i migranti in un luogo di accoglienza, in attesa del giorno dell’imbarco. Per fortuna tra tanti sconosciuti Giovanna e i suoi figli possono contare sul sostegno morale degli alvitani che prenderanno la via dell’oceano sulla stessa nave; c’è bisogno di rassicurarsi a vicenda in una grande città portuale brulicante di gente, tra incertezze, timori e sbalordimenti, tutto molto diverso dal paese di provenienza, dove la giornata scorre in modo prevedibile.

Cercano di tenere a mente le informazioni e le istruzioni ricevute, prima di lasciare il paese, dal rappresentante della compagnia di navigazione: lui probabilmente sa che questi viaggi sono rischiosi, che al trasporto dei migranti sono assegnate navi con alle spalle molti anni di navigazione, spesso vere e proprie carrette, sa delle epidemie che possono scoppiare tra i passeggeri della terza classe, delle morti per febbre tifoide, malattie broncopolmonari, morbillo, influenza, incidenti in coperta; è a conoscenza della mancanza a bordo di refettori, di servizi igienici adeguati, di un’infermeria, sa che il cibo è scadente. Forse ha sentito parlare dei terribili naufragi verificatisi lungo la rotta per le Americhe e della morte di moltissimi emigranti del Sud-Italia, ma Giovanna e gli altri alvitani che si accingono alla grande traversata si sono affidati a lui.

Intanto, nell’attesa dell’imbarco, sono sottoposti ad una accurata visita medica, gli occhi e i denti sono esaminati con particolare meticolosità, devono essere sani; inoltre ci sono da sbrigare varie incombenze burocratiche fino al giorno atteso e temuto della partenza. Cesidio e Domenico spronati dalla madre raccolgono i fagotti depositati sopra e vicino alle brande che sono state i loro giacigli nella grande camerata suddivisa da tende, quanto basta per un minimo di riservatezza, in fondo non è altro che un assaggio di quella che sarà la permanenza sul piroscafo. Giunti al porto si mettono in fila per salire a bordo, in verità un po’ sconcertati alla vista del quel gigante che deve accoglierli…

Come farà a stare a galla per tanti giorni? Ma è proprio necessario lasciare il certo per l’incerto? Luigi, Luigi si deve raggiungere Luigi! Là c’è un marito e un padre che aspetta, là c’è il pane, c’è il pane! Là… 

Per fortuna sopraggiungono altri pensieri nella mente di Giovanna preoccupata per l’incolumità dei suoi figli, accorta a non perdere di vista i suoi compaesani, a contare i suoi bagagli. Sul bastimento, un pasto frugale accompagnato dal sapore del pane di casa e poi eccoli nel grande alloggio sottocoperta con cuccette sostenute da telai di ferro. Non ci sono suppellettili dove sistemare i poveri averi, i pochi abiti serviranno loro per tutto il viaggio e se si volesse lavarli sarebbe un vero problema; i fagotti più voluminosi stanno a terra, sempre a portata di mano soprattutto di occhi, gelosamente custodite sono le provviste alimentari, quel pane di casa che di giorno in giorno diventa più saporito.

L'attraversamento dell'oceano, partendo dall'Italia, dura dai 12 ai 13 giorni, quasi tutti viaggiano in terza classe, dormono in ambienti dove l’aria è irrespirabile e mangiano zuppa; in prima classe è tutta un’altra storia e le pietanze sono preparate accuratamente

Durante la traversata, Giovanna intrattiene qualche chiacchiera con alcune donne che condividono con lei il destino di una partenza definitiva, ma pensa costantemente ai suoi bambini, timorosa che si ammalino o corrano chissà quali altri  pericoli. 

“Quando stavamo sul ponte affollato della terza classe” mi dirà un giorno Cesidio ormai ottantenne, “respiravamo quella bella aria che sapeva di sale e, mentre si rideva per gli spruzzi che arrivavano fino a noi, guardavamo come era grande l’Atlantico, come erano alte le onde, altissime e, con il mare calmo, i pesci e i delfini … che spettacolo!”

Cesidio e Domenico ormai hanno familiarizzato con Loreto, con l’altro Cesidio e con Felice, nessuno di loro aveva mai visto il mare e stare lì ad osservarlo li rende euforici e chiacchierini, mentre i più grandicelli che conoscono già il duro lavoro sentono serpeggiante il timore di ciò che li attende. A Giovanna il coraggio non manca e non è quello della disperazione o non solo quello. Un coraggio innato, ereditato da gente fiera e forte, che ha sempre lottato tra gli stenti della vita quotidiana, un coraggio che guarda avanti.

“… devo essere là, una terra che non conosco, devo arrivare sana e salva con i miei figli, devo portarli dal padre! …”

“Mamma, mamma, ma’! Cosa faremo là! “

“Non lo so! Dobbiamo andare, qualcosa faremo, ci penseremo quando sarà ora. Vostro padre ci aspetta in una grande città, è grande! Lo ha detto lui e sicuramente qualcosa faremo.”

É il coraggio che s’impossessa di Giovanna e di tutte le donne della numerosa famiglia cui appartiene, che danno via i loro pochi averi per pagare il prezzo del sogno, per affrontare un tale viaggio con figli bambini o adolescenti, per percorrere la grande arteria di sale e acqua che le prepara a superare difficoltà e disillusioni. E ancor più quella risolutezza servirà oltreoceano.

La mattina del 15 maggio 1899 dallo Chateau Yquem, attraverso la fitta foschia, si avvista “L’America” e tutti si accalcano ai parapetti, mentre Giovanna a stento trattiene Cesidio e Domenico che si uniscono alla meraviglia indefinibile dei migranti di terza classe, intanto parlano con l’amico Felice e con Loreto che ostenta una presunta sicurezza da adulto, l’altro Cesidio si tiene un po’ in disparte, ha un carattere più chiuso, pensoso. Il viaggio in mare, che ha visto impegnate tutte le energie per il forzato adattamento a condizioni quasi estreme, sta per diventare un ricordo, ma gli adulti avvertono una certa apprensione per l’immediato ignoto e se non fosse per lo spiraglio aperto dalla certezza di un volto noto, quello di Luigi marito-padre, nella confusione dell’ormai prossimo sbarco, per Giovanna e i suoi figli meglio sarebbe stato non essere mai partiti.

“Ora appare le statua della libertà” dice qualcuno che ha già fatto questo viaggio e vuole rendersi utile. “É alta centocinquantuno piedi e nell’interno è vuota tanto che ci si può salire. Vedete la corona sulla testa? E la fiaccola nella mano destra? É accesa anche di notte, è illuminata con l’elettricità. L’America è una terra straordinaria!”.

La giornata è lunga, si fa sera, si è sempre più vicini alla meta e la città scintilla di luci all’orizzonte. La mattina del 16 maggio Giovanna tiene stretti a sé i suoi due figli bambini perché teme di perderli. Hanno  raccolto i loro fagotti e sentono che qualcuno li chiama nel corso di un lungo appello in ordine alfabetico. Sono desiderosi di vedere Luigi, marito e padre, pensano intensamente al momento in cui questo avverrà e non avvertono più nessuna nessuna fatica, nessuna paura. Da questo momento guarderanno di spalle l’oceano e con quel volto, che è tutta la loro speranza, abbracceranno la nuova terra avida di forze giovani, ma con gli occhi della mente passeranno in rassegna la casa lasciata per sempre e, uno dopo l’altro, coloro che non rivedranno più. Cesidio rivede il volto dello zio tanto affettuoso e premuroso con lui: quando aveva 5 anni ed era malato, solo lo zio era riuscito a fargli ingoiare quella medicina così amara grazie alla quale era guarito. Lo zio Pitto, fratello di sua madre, che ogni sera passava a salutare i due bambini, Cesidio e Domenico, portando loro dei confettini così dolci e così croccanti con un sottile bastoncino di cannella al centro; si chiamavano cannellini e si vendevano con altre delizie nella Pasticceria Di Tullio, in Piazza. Sì, proprio di fronte alla bottega dove gli zii Pitto e Cesidio lavoravano come calzolai, dove quel forte odore di pelle e di cuoio penetrava fino alle ossa insieme a quello di cera d’api e pece opportunamente miscelate per rafforzare lo spago delle cuciture.

Ma ora c’è quella statua tra il vecchio mondo e tutte le imprevedibili novità che incalzano. Ancora non sanno i due bambini che ai poveri diavoli provenienti dall’Italia, specialmente dal Sud-Italia, a quella “brutta gente” l’America riserva lavori massacranti nella costruzione di strade, ferrovie, gallerie, nelle miniere, nelle acciaierie o, se non si hanno braccia abbastanza forti, il piccolo commercio ambulante, altre volte ci si guadagna da vivere facendo i suonatori ambulanti. Giovanna qualcosa immagina, lo ha capito dalle scarne lettere ricevute dal marito che prima a Philadelphia, poi a New York ha lavorato duramente, subendo disprezzo e umiliazioni, per permettere alla famiglia di raggiungerlo. Fornisce mano d’opera mal pagata, come i suoi connazionali del Sud, considerati cafoni, arretrati, una massa di contadini analfabeti … anche criminali e mafiosi.

Il lavoro non mi spaventa, neanche le rinunce, mi adatterò, ci sono abituata, avremo il necessario per vivere e i bambini… loro dovranno avere un futuro migliore, saranno americani. Il resto si vedrà! E poi là c’è anche mio cognato Nicola e presto mia sorella Concetta ci raggiungerà … e Domenica? Anche lei è partita con i suoi figli, forse potrò rivederla! Suo marito Angelo sta in un’altra città, sarà tanto lontana da Nuova York? È presa da questi pensieri Giovanna, mentre la terza classe, con il cuore che batte quasi all’unisono, si accalca sul ponte dove ognuno riceve il suo cartellino e il biglietto ferroviario se deve proseguire verso altra meta. I battelli per il trasferimento ad Ellis Island sono in azione e presto tutti raggiungeranno l’edificio a mattoni rossi dove ispettori e medici sono pronti per ispezionare e visitare accuratamente, per interrogare. Ellis Island, mi raccontava Cesidio nel 1972 nella sua casa di Staten Island con la bella vista del Verrazzano Bridge - non aveva mai dimenticato il suo italiano che curava leggendo giornali redatti nella sua lingua d’origine - è un isolotto, dove l'Ufficio Federale Immigrazione aveva posto il centro di accoglienza. Là, alla foce dell'Hudson, vicino alla Statua della Libertà, fino al 1924 erano passati tutti quelli che arrivavano a New York. Il piccolo porto di Ellis Island non poteva ospitare navi di grandi dimensioni, perciò si fermavano presso l’isoletta di Lower Bay, nella grande baia di New York; i cittadini americani e i passeggeri di prima e di seconda classe, considerati abbastanza ricchi da non essere un peso per lo Stato, erano liberi di sbarcare dopo semplici controlli, mentre gli emigranti che viaggiavano in terza classe erano portati a Ellis Island su chiatte. Cesidio mi parlerà della grande sala, la grande Registry Room dove ognuno attendeva nelle lunghe file separate da transenne. Lui e il fratellino Domenico, il giorno prima traboccanti di domande alle quali la madre non sempre sapeva rispondere, erano silenziosi, ma osservavano e le immagini sarebbero rimaste stampate nei loro occhi. Nel Registry Room aspettarono il loro turno, quindi lasciarono fare al medico che auscultava il cuore e il respiro, osservava gli occhi, i denti, la gola e rivolgeva alla madre domande, tramite l’interprete, sullo stato generale di salute suo e dei suoi figli, soprattutto domande che miravano ad accertare lo stato mentale. Particolare attenzione poneva l’oculista all’esame degli occhi, a rivoltare le palpebre alla ricerca di eventuali sintomi di tracoma, infezione della congiuntiva e della cornea che poteva aprire la via del rimpatrio. Giovanna cercava di controllare la propria ansia, rispondeva all’interprete con la naturale riservatezza, certa della sua buona salute e di quella dei suoi figli temprati da una vita priva di agi, di moine, di ricercatezze… Lei era solo analfabeta e questo ancora si tollerava, in fin dei conti era una donna e sarebbe rimasta in casa. Giovanna in quel lontano16 maggio 1899 ha una destinazione certa, ha in tasca i pochi dollari prescritti, è sana, traboccante di speranza e può sbarcare con i suoi figli. Così non è per una famiglia del Nord-Italia infagottata e spaventata che viene respinta perché sprovvista di quei pochi dollari. Così non è per alcuni uomini e donne che sono segnati con il gesso, quindi trattenuti per ulteriori accertamenti; PG per le donne incinte, K per l’ernia, X per problemi mentali e così via. Vengono inviati in locali appositi per accertamenti più approfonditi. Possono essere respinti e rimandati in patria o accolti nell’ospedale di Ellis Island perché giudicati curabili  e guaribili, quindi potranno sbarcare. Così non è per due bambini rimasti orfani, perché la loro madre non ce l’ha fatta a portare a termine la traversata, se non c’è un parente ad attenderli dovranno essere adottati, altrimenti saranno respinti. A New York, dal 1892, e poi nel porto di Boston opera la Società San Raffaele, fondata da Mons. Scalabrini, con il compito di seguire i casi pietosi di donne e bambini: molti minorenni, che dovrebbero essere espulsi o potrebbero cadere in chissà quali mani, sono così affidati alla San Raffaele, che cerca di ottenere l’adozione o l’affido presso altre famiglie italiane. Nel 1931, Edoardo Corsi, nominato direttore di Ellis Island dove lui stesso era sbarcato nel 1907, afferma: “Le nostre leggi sul rimpatrio sono inesorabili e in molti casi disumane, particolarmente quando si riferiscono a uomini e donne dal comportamento onesto il cui unico crimine consiste nel fatto che hanno osato entrare nella terra promessa senza conformarsi alla legge. Ho visto centinaia di persone del genere costrette a ritornare nei paesi di provenienza, senza soldi e a volte senza giacche sulle spalle. Ho visto famiglie separate, che non si sarebbero mai riunite: madri separate dai loro figli, mariti dalle loro mogli, e nessuno negli Stati Uniti, nemmeno il Presidente in persona, poteva evitarlo.” 

Giovanna è fiera di aver condotto i suoi figli incolumi nella terra del loro futuro, é il suo orgoglio, il marito dovrà riconoscere il valore del suo operato; lui, un uomo, non avrebbe potuto far meglio. E come lei sono tante le donne che ogni giorno compiono l’ardua impresa. Tante donne, tante anonime pagine di Storia, ma ogni donna ha il suo volto e i suoi fardelli, il suo stato personale che per fortuna qualcuno registra. Giovanna in Mott St., nella Little Italy di Nuova York, affronterà una vita non facile e darà alla luce altri tre figli.

Maria Iacobone

Oltre la speranza (prima parte)

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