Se vi accingete a leggere la terza parte del mio racconto-verità, lasciate che vi accompagni con qualche richiamo alle prime due parti. Siamo nel bel mezzo della “grande emigrazione” verso il Nuovo Mondo, tra 1800 e 1900, e da Alvito partono centinaia di uomini, spesso seguiti da donne e bambini. Sono per lo più braccianti agricoli, che cercano lavoro, condizioni di vita migliori, un futuro per i loro figli.

La numerosa famiglia di Domenico Esposito e Nunziata Cenci, uniti in matrimonio il 10 febbraio 1850, in pochi anni si alleggerisce di tante bocche da sfamare: sei figli maschi Vittorio, Nicola, Angelo, Luigi, Cesidio e Domenico seguono il loro destino. Cesidio non sopravvive al primo anno di vita e Vittorio, il primogenito, morirà lasciando sua moglie Maria Eugenia e quattro dei suoi sei figli Francesca, Assunta, Maria Rosaria e Palmerino; Francesco e Cesidio sono morti in tenera età. Angelo nel 1882 aposa Domenica e da lei ha quattro figli, il secondo dei quali non sopravvive al primo anno. Nicola, il secondogenito, prende in moglie Nicolina dalla quale ha una figlia, Nunziata, quindi vede “salire al cielo” due figli maschi di pochi mesi, seguiti dalla stessa Nicolina; nel 1890 prende in seconde nozze Concetta, sorella di Giovanna che ha sposato Luigi l’anno precedente. Infine c’è Domenico, il più giovane, che sposa Vittoria nel 1891, di questa giovane coppia vi narrerò nella terza parte.

I quattro fratelli Nicola, Luigi, Angelo e Domenico lasciano Alvito tra il 1895 e il 1896 e si stabiliscono a Philadelphia per poi raggiungere altre destinazioni, soprattutto New York, e tra il 1899 e il 1904 richiamano le mogli, i figli e la cognata Maria Eugenia, vedova di Vittorio, con i suoi figli. I genitori, Domenico e Nunziata, invecchieranno ad Alvito, nella loro casa ormai vuota.
Nei due precedenti racconti ho parlato delle partenze di Luigi che lascia la moglie Giovanna e due figli maschi bambini, di Nicola e di Angelo che a loro volta lasciano nella casa paterna le mogli, Concetta e Domenica, con i loro figli. Ho parlato, poi della coraggiosa partenze delle donne, le prime sono Domenica e Giovanna con figli al seguito. A Giovanna, in particolare, ho dedicato la seconda parte. Ecco, infine, la terza parte dedicata a Concetta, a Francesca, a Maria Eugenia, a Vittoria.

Concetta e le altre
Concetta, sorella maggiore di Giovanna, ormai in terra d’America, ha visto partire suo marito Nicola Esposito nel 1896 e da allora ha trascorso cinque anni in casa dei suoceri Domenico e Nunziata che, a loro volta, vedono assottigliarsi la famiglia, le gioie e i dolori, sapendo che le partenze sono definitive. Concetta, che ha perso il suo unico bambino, Pietro, ma ha almeno la consolazione di vegliare sulla figliastra Nunziata che Nicola ha avuto dalla prima moglie, ha superato i quarant’anni. E’ alta, per niente formosa, ha il viso spigoloso e il naso affilato, uno sguardo malinconico, messo ancor più in evidenza dai capelli, con più di un filo bianco, ben tirati a partire dalla scriminatura perfetta e raccolti in una crocchia alla nuca. E’ piuttosto riservata e poco loquace, ma è molto attenta ai bisogni dei suoceri anziani e ha una certa confidenza con la suocera ormai nella settantina, donna dalla figura rotondetta e dal carattere bonario, ma decisa e coraggiosa per una esperienza di vita che non le ha risparmiato fatica e dolori in cambio di una caparbia risolutezza e di una salute di ferro. E’ contenta Concetta in cuor suo quando i fratelli vengono a trovarla e pensa spesso a quel telaio che era stato complice della pacatezza del suo carattere, diverso da quello energico e determinato di sua sorella Giovanna dalla figura più minuta e aggraziata. Dopotutto avverte ancora la nostalgia della casa paterna, vi era rimasta fino all’età di trent’anni, correndo il rischio di rimanere zitella. Le sorelle Concetta e Giovanna, nate rispettivamente nel 1860 e nel 1865, fin da giovanissime, in un locale della casa paterna in Via Ospedale, tessevano quei bei teli rustici di canapa e cotone o di canapa e lino, della larghezza di 78 centimetri, e ne facevano dei rotoli che riponevano nella cassapanca e che sarebbero serviti per lenzuola, tovaglie, asciugamani, panni da cucina, fasce per neonati, il tutto destinato alle esigenze domestiche, al corredo delle donne. Quante lenzuola erano uscite dalle mani di Giovanna e Concetta! Tagliavano dai rotoli tre pezzi di tela di tre metri ciascuno e li affiancavano, cucendoli insieme in modo che le cimose o spighette del tessuto non si sovrapponessero e le cuciture risultassero assolutamente piatte, usavano il punto mosca o il punto a spina di pesce; se le lenzuola erano di sopra le donne non mancavano di ricamare a punto croce le iniziali del nome della destinataria.


Le due sorelle sono figlie di Nicola Di Bona (1831/1921) e Teresa Romanelli (1833/1910) e hanno quattro fratelli: Francesco (1862/1953), Cesidio (1867/ 1952), Giovanni Battista (1870/ 1918) e Valerio (1873/?) che emigra in Francia nel 1914 senza più fare ritorno in Italia. Giovanni Battista fa il panettiere, Francesco e Cesidio sono calzolai, come lo era stato il padre Nicola, e lavorano in una delle tante botteghe in Piazza. Ricordate? L’odore del cuoio è rimasto impresso nella mente del nipote Cesidio, che abbiamo visto emigrare in America a nove anni con la madre e il fratello minore per raggiungere il marito/padre Luigi Esposito. Periodicamente i fratelli Cesidio e Francesco Di Bona si recano in Francia come bravi artigiani che sanno realizzare scarpe di cuoio e pelle su misura, a quei tempi molto richieste. Ad Alvito vivono nella casa paterna di Via Ospedale, poi in via Elvino, ma Cesido e Maria, sposati dal 1894, non hanno figli, mentre Francesco e Cesidia, sposati dal 1890, ne avranno ben sette. Dei sette una è Lucia Di Bona (n.1896), mia nonna materna, nipote di Concetta e di Giovanna.
Per Concetta giunge il momento di raggiungere il marito a Nuova York con la figliastra Nunziata, finalmente il gruzzolo per il viaggio è stato messo faticosamente insieme da Nicola con un lavoro duro, quello riservato agli ultimi arrivati, agli italiani del sud con tutto il loro patrimonio di sofferenze e rinunce. Concettella, così la chiamano in casa, si sente in apprensione, sebbene cerchi di non darlo a vedere, è taciturna, solo la suocera riesce a cavarle qualche parola di bocca o il fratello Pitto (Francesco) che l’aiuta a sbrigare le pratiche necessarie per l’espatrio, prima di ogni cosa il passaporto.


— Concette’ vedi che devi fare! — le ripeteva spesso la suocera. — A Nunziatella tocca una vita meglio della nostra, non è tagliata per la campagna romana, s’ammala e a povero Nicola gli restano le mosche in mano! Tu ancora non stavi a casa nostra, ma lo sai, due creature ha sotterrato e poi… pure la povera Nicolina, la prima moglie. Eh, Nicolina!… si vedeva che era smilza e la vita travagliata non la poteva reggere. Concette’, tu non parli, ma pure tu hai visto Pierino tuo solo per pochi mesi! Che disgrazia per povero Nicola!, … il 26 marzo del ’93 me lo ricordo bene, la creatura … un altro Angelo del Signore. Almeno rimane Nunziatella e tu ce la devi portare al padre, a tuo marito! Io … io non lo rivedo più … da quella mattina che salì sul brek con suo fratello Angelo … hai visto Domenica com’è stata risoluta? E’ partita e s’è portata i figli, così Angelo non sta più solo come un cane, deciditi Concette’!
Erano proprio queste le parole che la suocera rivolgeva a Concettella? Penso che il tono fosse questo, doveva scuoterla, toglierle quei brutti pensieri che l’avevano incupita dalla morte del suo bambino di soli pochi mesi. Quel giorno rimane come una grande ferita nel suo cuore: perché la sua ragione di vita se ne era andata così, senza nessuna pietà par una madre premurosa e per un padre che di bambini in tenerissima età ne aveva visti salire al cielo altri due? Quel giorno la famiglia Esposito e la famiglia Di Bona si unirono nel pianto e nella commozione ed fu il fratello di Concetta, Cesidio, che si recò al Comune con il gravoso compito di ufficializzare il triste evento.
Dopotutto, volente o nolente, una nuova vita si apre per Concetta quando il passaporto viene consegnato a lei e a Nunziata. Il 18 marzo 1902 il Comune di Alvito aveva concesso il nulla osta che inviava a Frosinone e presumo che le due donne sarebbero partite nel mese di aprile. Il mio rammarico più grande è quello di non poterle seguire nel loro navigare perché il nome di Concetta e quello di Nunziata si sono persi nelle migliaia di nomi registrati a Ellis Island. Raggiungono Nicola, marito/padre quasi cinquantenne, ora residente a Nuova York in Mott St 291.
Concetta e Giovanna, due sorelle illetterate che firmano con una croce e che, se fossero partite un paio di decenni dopo, sarebbero state rispedite a casa per una legge molto restrittiva che avrebbe contenuto il Literacy Test Act per gli emigranti negli USA. Si tratterà di un dettato di 50 parole: “una regola fatta per tagliar fuori gli analfabeti, selezionando con un criterio che sembrava non razzista l’arrivo di immigrati desiderati e indesiderati.” (AA. VV. Verso l’America, Donzelli Editore). Già prima, nel 1907, una nuova legge del Congresso avrebbe inasprito ulteriormente le norme vigenti, istituendo visite mediche ancora più severe per l'accertamento delle persone "fisicamente e intellettualmente difettose". Gli immigrati saranno sottoposti a visite "psicologiche" con test mentali tipo: "conti da 20 a 1 andando all’indietro”.
Due sorelle illetterate che sposano due dei fratelli Esposito, Nicola e Luigi, capaci almeno di scrivere il proprio nome e che, da illetterate, affrontano una vita nuova confidando nella buona sorte che trasformerà, se non altro, il loro sacrificio in maggiore sicurezza per i i nuovi nati. Almeno Giovanna e Luigi ne hanno e in America nasceranno Victoria, Joseph, e Carmine.
Le nascite, le morti, i matrimoni, le nascite, le partenze, le morti … si avvicendano a ritmo serrato nella famiglia numerosa di Domenico Esposito, pater familias e le partenze come la morte sono per sempre. Nel 1902 prendono la via dell’Oceano anche i figli del defunto primogenito Vittorio e di Fantozzi Eugenia, Francesca e suo fratello Palmerino accompagnati da (De) Carolis Giuseppe trentaquattrenne che ha sposato la giovanissima Francesca. Sono passeggeri di terza classe della nave Forst Bismark che salpa da Napoli il 26 (?) gennaio 1902 e arriva a Nuova York il 7 febbraio. A Nuova York Palmerino sarà accolto da suo zio Nicola Esposito in 291 Mott St.; Francesca e suo marito andranno dagli zii Luigi Esposito e Giovanna, sempre in 291 Mott Street. Siamo in piena Little Italy, nella parte meridionale del distretto di Manhattan, il “Lower East Side”. Mott Street è abitata soprattutto da calabresi e pugliesi, mentre i napoletani si stabiliscono in Mulberry Street e i siciliani in Elizabeth Street. Tra il 1885 e il 1895 i limitrofi quartieri degradati e malfamati dei Five Points sono riqualificati. Qui, dalla prima metà del secolo, avevano regnato sovrane miseria, violenza, prostituzione, corruzione, scontri tra bande di nativi e di irlandesi che affluivano sempre più numerosi; qui almeno una parte della prima ondata di emigranti italiani aveva trovato ricetto in appartamenti fatiscenti. In seguito alla riqualificazione di Five Points le masse di poveri si spostano nell'adiacente quartiere del Lower East Side dove gli italiani arrivano numerosissimi tra la fine del 1800 e l’inizio del 1900, raggruppandosi per regioni di provenienza
Francesca ha quasi 19 anni e prima di partire ha sposato, il 26 dicembre 1901, Carolis (forse De Carolis) Giuseppe 34enne. Perché lei così giovane, lui decisamente meno? Forse questo avrebbe reso più agevole l’espatrio che sarà possibile anche perché gli zii Nicola e Luigi, ormai a Nuova York, dopo i primi anni a Philadelphia, li avrebbero ospitati all’inizio della loro avventura destinata a proseguire proprio a Philadelphia, dove è rimasto lo zio Angelo che viene raggiunto dalla famiglia. Francesca e suo marito prepareranno la strada per accogliere la vedova madre/suocera e le sorelle/cognate. Così giunge l’ora di Maria Eugenia e delle sue figlie Assunta e Maria Rosaria
“E’ troppo tardi per me, ho l’età, dove vado! e queste due femminucce mi aiutano… Assunta ormai ha 14 anni, Maria 11 e va pure a scuola, legge e scrive … Il padre, Vittorio mio, che la sua anima sia benedetta!, non vede i figli crescere … Francesca è proprio bella con i suoi capelli ricci e neri come il fondo di un pozzo e con quegli occhi grandi che parlano, ha preso tutto da me, è pure alta come me, giusta!, e quando mette il busto è proprio una donna fatta. Tanti la volevano, ma si è maritata con Giuseppe che l’ha portata in America con Palmerino mio e mo c’ha in testa che deve richiamare pure a noi. Anna ancora è piccolina, ma Assunta? Tra qualche anno pure Assunta è pronta per maritarsi… ma il padre non la porta all’altare! Certo, poco e niente ci sta per la casa e ci spacchiamo la schiena per sfangarla… E i due vecchi, chi penserà a loro se parto pure io? Troppe disgrazie hanno visto, troppi bambini morti e Vittorio, Vittorio mio! Era il primo figlio di questi due vecchi, era forte come un toro, proprio come la mamma, e all’improvviso … La vita è dura, il lavoro è duro e si tira a campare… E quella campagna romana a luglio? Pochi soldi e dalla mattina alla sera mietere zappare mietere trebbiare zappare e tirare a campare. Pure un figlio ci ha fatto mia suocera nella campagna romana! Lo dice sempre che quell’anno sono rimasti tutti e due dopo la mietitura, la trebbiatura e la vendemmia a ripulire i campi seminati e a guardare gli animali della tenuta, proprio a Torre in Pietra, e a dicembre Menicuccio è nato e l’hanno battezzato lo stesso giorno nella chiesa vicino al Castello dei signori. — C’era brava gente, pane cacio e minestra bollita non mancavano!— lo dice sempre. E cognata Domenica? Un’altra nata alla campagna romana, mi pare a Castelguido; la madre Maria a buttare il sangue col marito sotto al sole … e nasce … E’ bello Menicuccio, l’ultimo dei fratelli Esposito è il più bello, e c’ha pure tre figli maschi, uno più piccolo dell’altro, ma il secondo
… è stato sempre deboluccio, malaticcio … La moglie è ancora giovane, è giovane cognata Vittoria!, un figlio appress’all’altro! … e anche se hanno un poco di terra tirano avanti malamente, il pane c’è e non c’è e il rischio di indebitarsi sta sempre davanti alla porta. Così, anche Menicuccio una mattina è partito mentre la moglie si disperava, non parlò per tre giorni Vittoria. Ma, tanto, lui non resiste, va e viene e quei dollari che guadagna li spende quasi tutti per i viaggi, ma vuole portarsi anche Vittoria là, si vuole sistemare con la famiglia. La famiglia sta unita …”
Nonostante i suoi tentennamenti, a 47 anni Maria Eugenia s’imbarca a Napoli sulla nave Prinz Adalbert, portando con sé le figlie. Un bel coraggio! E’ tutto scritto sul registro di bordo n° 61, nel quale figurano altri tre alvitani: Di Santo Rocco, Martini Cesidio e Cervi Vincenza di 16, 18 e 16 anni. Ancora giovanissime braccia che vanno a cercare “fortuna”, una vita meno disgraziata, un futuro; giovanissime vite che sulla nave familiarizzano con coetanei abruzzesi, napoletani e calabresi e si confortano, si confondono con altre mille persone, si guardano intorno con stupore e smarrimento. A volte pensano che gli animali nelle stalle stanno meglio di come sono alloggiati loro su quella nave, eppure riescono a sorridere, si adattano più facilmente degli adulti alle grandi ristrettezze, sanno sognare… E restano incantati ad ascoltare gli organetti che ogni tanto qualcuno suona con note di rimpianto e i canti nostalgici che ormai si tramandano: E io lasso ‘a casa mia, lasso ‘o paese, / e me ne vaco ‘n America a zappare. / Pe’ fa’ furtuna parto, e sto nu mese / Senza vede cchiù terra, cielo e mare. / E lasso ‘a casa mia, l’Italia bella, / pe’ ghi luntano assaie, ‘n terra straniera. / E sotto a n’atu cielo e n’ata stella / Trasporto li guaglioni e la mugliera. / E là accummencia la malincunia penzanno / a la campagna addò so’ nato; / a chella vecchia santa ‘e mamma mia, / e a tutt’ ‘e ccose care d’’o passato. Ascoltano con particolare batticuore le storie che raccontano i grandi, la sera, giù, nel dormitorio sottocoperta dall’aria sempre più satura di odori umani, di disperazione e di speranze, tanto meglio se si tratta di storie paurose: —Stiamo a Gibilterra, l’ho sentito dire da chi lo sa e ho sentito dire pure un’altra cosa. Proprio a Gibilterra una decina d’anni fa, ci fu un brutto affare. Insomma, com’è come non è, un piroscafo… Utopia! era partito da Trieste e s’era fermato a Napoli, poi, un giorno, si scatena la tempesta … la fine del mondo! Stava proprio qua dove stiamo noi, sbaglia la manovra e si scontra col bastimento inglese. E’ il 17 marzo, tra il lusco e brusco, e l’acqua comincia a entrare nel piroscafo, allora il comandante dice - scialuppe a mare! - ma la nave si piega e i poveracci già morti di paura, urlano e si raccomandano l’anima… Il piroscafo affonda e tanta gente, gente come noi, a centinaia come noi, in trappola.
— Come in trappola!?
— E dove vanno! Pochi si salvano, portava 2 o 3 passeggeri in prima classe, qualcuno senza passaporto, una sessantina dell’equipaggio e più di 800 italiani quasi tutti del Sud, 576 i morti. Chi c’ha fortuna s’aggrappa alle scialuppe inglesi che arrivano…
— E quel piroscafo francese!— aggiunge un altro passeggero.
—Il Bur, Bur … un nome difficile! era carico di italiani, affonda … a luglio del ’98, si scontra con un bastimento a vela, pure quello inglese, più di 500 morti! Mah! A noi, speriamo che Dio ce la manda buona… Domani ci fermiamo a Gibilterra, la nave fa rifornimento, è la seconda volta che faccio questo viaggio.



Ragazzi e bambini con gli occhi sbarrati si stringono uno vicino all’altro, poi, in silenzio, raggiungono i propri giacigli. Anche Assunta e Maria Rosaria, tenendosi per mano, hanno ascoltato e la storia rimane impressa nelle loro menti, quasi l’avessero osservata con quei grandi occhi castani, spauriti, e un giorno l’avrebbero raccontata, “la notte paurosa”, al cugino Cesidio che con i fratelli era andato a trovare i parenti di Philadelphia. Quella notte Assunta e Maria Rosaria si stringono forte sotto una coperta che scalda alla meno peggio, senza dire niente alla mamma che dopo aver scambiato a fatica speranze e preoccupazioni con alcune donne calabresi, armeggia intorno ai fagotti ben custoditi e fa girare mille pensieri nella sua testa.
“Cognata Vittoria, poverina, è rimasta sola con i suoi figli e il secondo non sta per niente bene… Quello che ha raccontato Menicuccio, quando è tornato dall’America, la impensierisce. Pare che noi poveri Italiani siamo visti male. Ma perché? Siamo brava gente, poveri ma bravi. Ci chiamano “brutta gente” e attaccabrighe e violenti, buoni solo con il coltello. E siamo pure troppo scuri, dicono. Siamo solo cotti di sole a faticare in campagna, e che male c’è! … Eh, anche là sarà dura per i nostri uomini portare il pane a casa, il pane c’è ma costa sudore e pazienza e rimettere in corpo … E noi poverelle? Non lo so, voglio prima vedere e più scuro della mezzanotte non si fa.”
La donna e le due figlie sane di mente e in buona salute, benché provate dai pesanti giorni di navigazione, con un indirizzo preciso sbarcano a Nuova York il 18 marzo 1904 dove trovano il genero/cognato Giuseppe, la loro destinazione è Philadelphia dove vengono accolte in casa della primogenita Francesca, là riabbracciano Palmerino di soli 10 anni che la madre ha lasciato partire con la sorella, lui è maschio e dovrà lavorare e farsi una vita migliore.


Non sa Maria Eugenia, mentre cerca di capire dove si trova, che anche il piccolo Domenico di 10 anni si spegne il 27 marzo e fa piangere lacrime amare alla madre Vittoria che non ha la consolazione di avere il marito accanto a sé. Vittoria stremata partirà, accontentando, finalmente, la volontà di Menicuccio. E’ il 1904, Vittoria Martini e suo figlio Mariano, il primogenito nato nel 1892, l’orgoglio e la speranza sua e del marito, dopo aver venduto quel pezzetto di terra, prendono i fagotti e lasciano la loro casa, non hanno più niente. Hanno invece le lacrime agli occhi per quel ragazzo di 10 anni che li ha lasciati qualche mese prima, e Menicuccio non c’era a piangere con loro. Piangono per quelli che lasciano, per gli affetti che tenderanno negli anni ad allentarsi, per tutto ciò che sa di quotidiano e che con il tempo si dissolverà come la nebbia.

Era bella Vittoria
quel giorno, mentre andava con i genitori davanti al Sindaco per il matrimonio civile con Menicuccio Esposito; era settembre, c’era la vendemmia e si sentiva frizzare nell’aria; a ottobre, il 29 ottobre 1891, si sposavano davanti a Dio. I suoi ventuno anni, seppur avvezzi ad una vita di fatica in casa e nei campi, davano luce ai suoi occhi grandi e scuri, alla pelle abbronzata, alle labbra ben disegnate e carnose, davano al suo fisico snello una scioltezza di movimenti e un portamento aggraziato come quando tornava dalla fontana con la conca sulla testa. Poteva sembrare un po’ mesta, ma quando parlava con le compagne diventava loquace e intraprendente, con Menicuccio, almeno da fidanzati, lasciava che parlasse lui.
Erano radiosi come il sole durante il corteo nuziale. C’erano tutti, grandi e piccoli, e facevano la loro bella figura con i poveri abiti della festa, erano partiti dalla casa della sposa profumata di ciambelle appena sfornate e di brodo nel quale bolliva la gallina allevata per l’occasione. Davanti c’era lo sposo con i il suo vestito scuro, la camicia bianca, il volto trepidante di giovinezza. I suoi capelli neri un po’ arruffati, la fronte alta e gli occhi scuri e brillanti di una incontenibile soddisfazione attiravano gli sguardi di quelli che osservavano il corteo. Dietro di lui venivano tutti gli altri uomini di famiglia con lo sguardo serio e piuttosto silenziosi. Finalmente la sposa, Vittoria, a braccetto con il padre: aveva il suo bel filo di corallo, gli orecchini pendenti, la camicia candida con le maniche sbuffanti, il busto che metteva in risalto il seno e stringeva la vita sulla bella gonna pieghettata di un grigio- azzurro cangiante che si allargava fino alle caviglie e faceva risaltate lo zinale di tela fina con le trine e le scarpe a punta di cuoio e pelle, fatte apposta per lei dai fratelli Di Bona. Con la sposa c’erano le altre donne che non potevano fare a meno di chiacchierare, di sorridere, di aggiustarsi la camicia della festa, sempre gelosamente custodita.

Al ritorno Vittoria e Menicuccio stavano davanti a tutti e camminavano a braccetto mentre la tovaglia incorniciava il volto della sposa e accarezzava i suoi capelli di un nero setoso, divisi dalla scriminatura e morbidamente raccolti alla nuca, con qualche sottile ciocca che ricadeva sulle frante alta. Dietro venivano le donne, anche loro con le tovaglie bianche che non facevano una grinza a fianco dei mariti che volevano essere impettiti, ma erano impacciati, poi giovani e ragazzi festanti; tutt’intorno donne, uomini, bambini e conoscenti che curiosavano, sorridevano e lanciavano parole ben-auguranti.
L’anno successivo nasceva il loro Mariano, poi Domenico, le bocche da sfamare aumentavano e Menicuccio che si ammazzava di fatica come bracciante e nel suo piccolo podere, decideva di partire, ormai se ne parlava troppo di quell’America dei miracoli, dove in poco tempo si poteva diventare ricchi. Era il 1895 e, sebbene ci fosse una legge del 1888 del governo Crispi, che cercava di regolamentare le partenze sempre più frequenti di emigranti, dando precise responsabilità agli agenti di viaggio e alle compagnie di navigazione, regnava ancora sfruttamento e confusione che uniti all’analfabetismo rendeva la situazione molto precaria, soprattutto a bordo e una volta arrivati a destinazione. Menicuccio Esposito si era affidato al mediatore e aveva messo insieme il denaro per il biglietto, sacrificando qualche piccolo avere e chiedendo un prestito … Certo, per un analfabeta eraNdifficile sbrigare tutte le pratiche necessarie e poi c’era il viaggio fino a Sora e poi quello in ferrovia, e la sosta a Napoli; ma non era solo, c’erano altri tre alvitani che avevano i parenti a Philadelphia e insieme si facevano coraggio.
“Tanto in poco tempo ripagherò il debito e penserò anche alla famiglia! Se Dio vuole verranno tutti in America e là…”
Ottenne il nulla osta, quindi il passaporto e, dopo un viaggio in terza classe al limite della vivibilità, con una massa di povera gente, si ritrovò a Nuova York, analfabeta e abbrutito nell’aspetto, come gli altri, per quella disumana traversata e per la sosta snervante a Ellis Island; disorientati, in buone condizioni fisiche e mentali e tutti pronti per essere etichettati come “brutta gente”. Menicuccio proseguì con i compagni alvitani per Philadelphia e l’anno dopo fece posto nella sua modesta stanza ai fratelli Nicola, Angelo e Luigi: Nicola e Luigi, manovali edili soggetti a tutti gli arbitri del tempo e dei boss che reclutavano la manodopera, lasceranno Philadelphia per Nuova York dove richiameranno mogli e figli dall’Italia, nel 1902 abiteranno in Mott St n. 291; Angelo rimarrà a Philadelphia dove sarà raggiunto dalla moglie Domenica e dai suoi figli e dove si stabilirà anche la vedova di Vittorio con i figli; Menicuccio non trovava pace, tornerà in Italia tra il 1897/98, doveva rivedere Vittoria, suo figlio Mariano, il piccolo Domenico che non era in buona salute e rendersi conto della situazione in cui versava la famiglia in quella modesta casa. “Durerà ancora per poco questa vita disgraziata”, pensava tra sé. Non gli era piaciuta Philadelphia né il lavoro da manovale, tanto meno il trattamento riservato agli italiani del Sud, le angherie di coloro che si trovavano ora nella condizione di ingaggiare gli operai a loro piacimento. Con le sue giovani forze aveva lavorato duramente con pala e piccone nella costruzione di nuove strade, ma aveva intenzione di andare a cercare fortuna nello stato dell’Ohio, gli avevano detto che c’era lavoro nelle miniere di carbone, nelle cave, nelle fabbriche, ma anche nei porti, perché pareva che là ci fosse un grande lago. Intanto Vittoria il 20 (?) - 10 - 1898 partoriva Cesidio, poi un piccolino che non ce l’aveva fatta… e aveva due cuori: uno le diceva di partire con Menicuccio, l’altro di non lasciare la sua casa. Come avrebbe potuto superare le difficoltà di un viaggio sicuramente pericoloso? Il suo Mariano avrebbe potuto farcela, e Domenico? E poi c’era il piccolo Cesidio. Il marito era lì per convincerla, le parlava delle sue cognate che avevano già affrontato quel viaggio. In America sarebbero stati sicuramente meglio, nonostante tutte le difficoltà, e i ragazzi avrebbero potuto sperare, e lui avrebbe faticato, faticato molto. Anche il piccolo Cesidio lascia i genitori e i fratelli, che non hanno più lacrime per piangere, il 25 agosto 1899 e Menicuccio, benché sofferente per la perdita del suo bambino, si convince che deve far presto a portare la famiglia in America, lontano dal lutto e dalle ristrettezze, è come se la casa fosse diventata ormai un luogo di disgrazie. Vittoria, che non aveva ancora trent’anni, sembrava invecchiata di tristezza, era ammutolita, mentre Mariano e Domenico richiedevano la sua attenzione e poi c’era da fare in casa e nel terreno che grazie a qualche risparmio di Menicuccio cercavano di salvare più che potevano. Così non le rimaneva tanto tempo per piangere, il pianto se lo portava con sé, nel cuore e nell’anima, e intanto recuperava le forze che servivano per campare, le recuperava per una “virtù innata” non certo per quel cibo sempre uguale che passava la tavola. Vittoria era stata molto provata dalla vita di donna accasata, ma sapeva ritrovare una forza che la stupiva e voleva andare avanti, sorretta nella speranza anche dalla suocera, ancora in buona salute, che non lesinava il suo soccorso, soprattutto per il bene del figlio, Menicuccio, quello che era nato a Torre in Pietra, nella grande tenuta ai bordi della Via Aurelia, e si era riscaldato dentro la culla improvvisata, nel calore della stalla degli animali che i genitori avevano in custodia. Vittoria sapeva in cuor suo quale direzione avrebbe dovuto prendere quella speranza, ma non riusciva ad accettarla; avrebbe preferito pane e cipolla a casa sua.

— Io torno là, questa vita è disperata, senza futuro per nessuno, — disse un giorno Menicuccio. — Tu, Vitto’, quando arriva l’ora, porta i nostri figli col bastimento come le tue cognate, senza paura, ma stai attenta. Nel dormitorio le nottate sono lunghe e si respira malamente, lo spazio è poco, i bambini te li devi tenere vicino, fatti un po’ di pulizia intorno, non pulisce nessuno. Accorta, si possono ammalare e poi che facciamo? Il giorno il ponte è affollato, ma si respira aria pulita e i bambini guardano il mare … l’oceano! E poi c’è la visita e poi ci sono tante domande che ti fanno. Tu dici che là ci sto io, che ho il posto per dormire e un lavoro, mi raccomando Vitto’. La famiglia deve stare unita, avremo altri figli, anche altre fatiche, ma io caverò il pane con i denti … il pane …
Nei primi mesi del 1900 Menicuccio partiva ancora da solo, doveva mettere insieme i soldi per richiamare tutta la famiglia. Era ormai un “uccello migratore” ed erano tanti quelli che lavoravano a contratto, stavano via per alcuni mesi, poi tornavano in famiglia. Non tutti se la sentivano di far fare quel viaggio a donne e bambini, specialmente se c’erano in casa genitori anziani e malati che nessun altro avrebbe potuto accudire. Certo, potevano cadere in mano a speculatori che procuravano il lavoro stagionale e i servizi minimi e non era escluso che potessero avere a che fare con la Mano Nera che in cambio di una tangente offriva protezione contro le organizzazioni di emigranti di altri paesi. Insomma ci poteva anche scappare il morto.

Non so come, Menicuccio si stabiliva a Huron nell’Ohio, sul lago Erie, era addetto al rifornimento di carbone dei piroscafi che facevano servizio sul lago e quel posto gli piaceva. Vittoria ancora non se la sentiva di partire anche perché portava in grembo un altra vita che veniva puntualmente alla luce il 28 settembre 1900. Era una bambina, Loreta, ma non arrivava a compiere il primo anno, il 6 agosto 1901 era un altro Angelo del Signore. In assenza del padre, fu il nonno Domenico Esposito di settantasei anni a recarsi il giorno dopo con l’amico Pizzuti Domenico, carrettiere, presso l’Ufficiale di Stato Civile del Comune di Alvito per dichiarare l’avvenuto trapasso di una bambina di dieci mesi.
Menicuccio tornava ancora a casa, senza aver visto nascere né morire sua figlia, Vittoria era debole e impiegava più tempo per superare quest’altra disgrazia, il suo fisico era provato, il volto era segnato dalle rughe del dolore, i suoi capelli avevano perso la naturale lucentezza, faticava a ritrovare ancora una volta le forze per i due figli maschi e provava una grande pena per il piccolo Domenico che si ammalava frequentemente; Mariano, invece, che era la copia precisa del padre, compresa l’irrequietezza che non lo faceva stare mai a lungo nello stesso posto, sembrava aver incorporato tutta la forza che era mancata ai suoi fratelli. Menicuccio riprese la via dell’Oceano nel 1903 ancora da solo, destinazione Huron - Ohio, ma, benché affranto, era più ottimista, sua moglie si andava ristabilendo e lo avrebbe raggiunto dopo aver finito di vendere quel poco che rimaneva.

Ancora una volta, nonostante tutti i dispiaceri sciorinati dalla vita, l’aveva incoraggiata e le aveva raccomandato di stare attenta, di tenere gli occhi ben aperti una volta arrivati a Napoli fino al giorno dell’imbarco. Attenzione ai bambini! E poi l’aveva rassicurata riferendole quanto aveva appreso dal mediatore che organizzava i viaggi e che ormai conosceva bene: c’era una nuova legge del Governo dal 1901, una legge che proteggeva la gente come loro prima di partire, durante il viaggio sul piroscafo e pure all’arrivo in America, là c’erano i patronati per aiutare quelli che non si raccapezzavano dopo lo sbarco. Insomma c’aveva messo tutta la sua pazienza e la sua parlantina, Vittoria doveva seguirlo a tutti i costi.
Sono in corso i preparativi per la partenza con l’aiuto dei parenti, della suocera che si prodiga più di quanto le forze le consentano, che consola e che esorta quando … Domenico, il piccolo Domenico di 10 anni, ha un forte attacco di febbre e tosse, una polmonite? Non ce la fa. Purtroppo a quei tempi il tasso di mortalità infantile era di 326 bambini morti nel primo anno di vita ogni 1000 nati vivi, poi c’erano quelli più grandicelli e la cifra saliva inesorabilmente; si moriva soprattutto per gastroenteriti, febbri tifoidi e paratifoidi, bronchiti e polmoniti, scarlattina, pertosse, morbillo e malaria, difterite e meningite. E le cause erano da attribuire, nella maggior parte dei casi, alle precarie condizioni igieniche e sanitarie, all’alimentazione priva di adeguate sostanze nutritive e alla mancanza di cure che, in seguito, con il progresso in campo medico avrebbero debellato tante malattie che avevano mietuto vittime innocenti. Le vaccinazioni sarebbero diventate determinanti, ma non sarebbero state altrettanto efficaci senza un generale miglioramento delle condizioni di vita.
Vittoria, con la maturità del suo volto ancora bello, solcato dalle sofferenze e Mariano, ormai grandicello e forte, dopo un lungo viaggio con la Prinz Adalbert fino a Nuova York, raggiungono in treno Huron. Lontano dalla maledizione, dalle miseria e dalla precarietà nasce Giuseppe e il suo nome è quello del nonno materno.
E ancora in questo angolo degli Usa vivono i figli e i nipoti di Domenico e Vittoria negli anni 60 del 1900, come apprendo da una lettera di Rita, nipote di Cesidio Esposito, il ragazzino che abbiamo visto espatriare a 9 anni con sua madre Giovanna e suo fratello Domenico, l’uomo ormai anziano che mi ha accolto nel 1972 nella sua casa di Staten Island dove ho conosciuto sua moglie Nellie, sua figlia Rita e le sue nipoti Rita Lu ed Elissa. Scrive Rita Lu: ”Ricordo di essere andata con i miei famigliari, ero una bambina, a trovare i parenti nell’Ohio, ci vollero circa 12 ore di viaggio. Credo che fossero i cugini di mio nonno. Vivevano a Sandusky, vicino a uno dei Grandi Laghi - il Lago Erie - Lavoravano alle gru che portavano il carbone dentro e fuori dalle navi. Il lago gelava in inverno (almeno parte del lago) e tiravano un capannone sul lago per andare a pescare sul ghiaccio. Nel capanno c’era un buco nel fondo ghiacciato dove potevano far cadere le loro canne da pesca.”
Questo è il prezioso ricordo di Rita che conferma l’Ohio come terra di emigrazione da parte di Domenico e Vittoria, si capisce che da Huron si erano spostati a Sanduscki, sempre sulla riva sell’Erie e capoluogo della contea.


La vita nel Nuovo Continente
Mancano notizie dirette sui primi anni di vita delle nostre “eroine” in terra d’America, ma quanto si legge sull’ostilità nei confronti degli italiani non è certo consolante. Gli immigrati italiani sono considerati di sangue impuro, avvezzi a vivere nel più assoluto degrado igienico-sanitario e morale, capaci di vendere donne e bambini, facili alla violenza e all’uso del coltello da cui l’umiliante appellativo “dago”, senza una solida fede religiosa, attaccati alle usanze portate dal paese d’origine, ben strette nei miseri fagotti come preziosi talismani. I cattolici irlandesi concedono solo qualche scantinato nelle loro parrocchie e il sacerdote a pagamento. Un giorno, però, il marito di Vittoria, figlia di Giovanna e di Luigi Esposito, avrà l’onore di sfoggiare il suo talento tutto italiano suonando l’organo nella Chiesa di Sant’Agostino a Brooklyn. I quartieri in cui alcuni dei nostri vivono, le Little Italies, sono chiassosi, rissosi e brulicanti di bambini, assordanti di suoni, rumori, straripanti di merce che occupa anche i marciapiedi, di lustrascarpe bambini ad ogni angolo. Alle feste dei Santi patroni, nei quartieri sovraffollati di italiani del Sud, ecco le processioni, i “botti”, i dolci paesani, talvolta i grandi alzano troppo il gomito e dalla lite passano ai pugni mentre i bambini si rincorrono, lanciando in aria le prime parole americane imparate nelle scuole americane, sospesi tra integrazione e tradizione. Impossibile dimenticare le tradizioni che i genitori conservano e difendono gelosamente. Le mamme sono molto protettive, non parlano l’inglese e aiutano l’economia della famiglia con lavori a domicilio, quasi sempre in nero.
Jacob Riis (1849 – 1914), cronista e fotografo di origini danesi, è un immigrato del 1870 che ha fatto i lavori più disparati, ha dormito nei luoghi più luridi, ha conosciuto la miniera, ha girato le strade come venditore ambulante e ha avuto modo di osservare la vita di migliaia di disperati sfornati dalle navi provenienti dall’Europa per stabilirsi a New York in quartieri sempre più inospitali. La città si sta industrializzando ed è come una calamita che attira immigrati, nativi delle zone rurali, schiavi neri liberati fino a creare bassifondi invivibili pieni di truffatori, di bande rivali, di ogni genere di degrado, mentre la classe borghese se ne disinteressa totalmente. Riis sente di dover documentare tutto questo con i suoi scritti, ma, soprattutto con le sue fotografie. Immortala, così, la vita nei bassifondi di Nuova York City alla fine dell’Ottocento e lo fa con grande, dignitoso e indelebile realismo. Il tutto è contenuto nel libro dal titolo COME VIVE L’ALTRA META’ DELLA CITTA’, pubblicato nel 1890 dalla casa editrice Charles Scribner’s Sons. Da un lato il disagio di gente costretta a vivere in stanze soffocanti, in baracche per i poveri, in palazzi fatiscenti, in strade sporche e chiassose dove spadroneggia ora questa ora quella banda, dove squallidi pub lasciano dormire sui tavoli per qualche centesimo; dall’altro quelli che hanno fatto fortuna e contribuiscono all’espansione della città e sono diventati ricchi commercianti o professionisti affermati, realizzando il sogno americano. Le immagini di Riis sono una vera e propria denuncia, una lotta pacifica per il miglioramento di condizioni di vita disperate, tutto quello che molti, lasciando la loro terra, hanno trovato al posto della fortuna tanto sperata.
I figli, le nuore e i e nipoti di Domenico Esposito e Nunziata Cence hanno lasciato Alvito, dissanguando la casa paterna, hanno venduto vanga e zappa spinti dalla secolare mancanza di terra, dai miseri salari e dall’orgoglio sempre piegato. Hanno voluto rincorrere il desiderio di possedere qualcosa, di mangiare pane bianco, di lavorare e campare senza troppe privazioni, di vedere i figli andare verso un futuro migliore. Hanno abbandonato i proprietari dei terreni sui quali hanno sudato, lasciandoli a corto di manodopera, un po’ indispettiti e un po’ increduli: perché all’improvviso tanti grilli nella testa di uomini, donne e bambini? perché andare tanto lontano? e perché d’un tratto desiderare ciò che “non fa per loro? In fondo il mondo è nato così. Tuttavia “il malessere della ruralità laziale era sotto gli occhi di tutti, in tutti c’era un generico desiderio di migliorare le condizioni del popolo. Nessuno però osava porre mano all’opera, perché nessuno riusciva a compenetrarsi di quel socialismo un po’ ingenuo ma in fondo realistico espresso alla Camera da Quirico Filopanti: migliorare le condizioni dei poveri senza scalfire i privilegi dei ricchi.”… “La prima legge sulla bonifica dell’Agro romano risaliva al 1878, la seconda al 1883. A dodici anni di distanza da quest’ultima data, tutto era rimasto come prima, nulla era stato fatto: o ben poco.” … “La classe dirigente viveva il dramma della povera gente, ma temeva, indicando le opportune misure del risanamento, di condannarsi al suicidio.”
http://professionistiperroma.altervista.org/blog/wp-content/uploads/2015/06/ AGRO_Romano_IV.pdf)

Dopo i primi provvedimenti del governo liberale di Zanardelli con Giolitti ministro degli Interni, nato dopo i tragici eventi dei “Moti per il Pane” a Milano, ci vorrà ancora tempo e sangue perché la condizione di vita di operai e contadini sia più dignitosa. E nel centro-sud i cambiamenti stentano ad attecchire. L’America diventa così il simbolo di una vita nuova e non solo per gli italiani del sud, così è stato per i contadini irlandesi sospesi tra emigrazione e morte in seguito alla grande carestia di metà ‘800, per tanti perseguitati politici liberali in un’Europa dispotica, per i polacchi che aspirano ad una Nazione, così è per gli armeni perseguitati dai turchi ottomani, per i greci, per gli ebrei. Il Governo Italiano, da parte sua, chiude gli occhi… tanto, l’emigrazione attenua pressione demografica e tensioni sociali, le rimesse degli emigranti, inoltre, portano beneficio all’estremo disagio delle famiglie e all’economia del Paese.
Giovanna e Concetta, Domenica, Francesca, Maria Eugenia, Vittoria, tutte analfabete, un po’ ignare e un po’ ingenue, un po’ disperate, sicuramente coraggiose, in buona salute, per nulla rassegnate e pronte a tutto, per forza o per buona voglia prendono i figli per mano e raggiungono i mariti. Non hanno il tempo per cedere alla paura dell’ignoto, sperano, sperano fiduciose. Poi, come accade alla maggior parte delle donne sposate, devono essere ancora più forti e coraggiose, devono adattarsi, assumere abitudini nuove, combattere con una lingua che non comprendono, stringersi intorno ad altri connazionali per formare quasi un blocco compatto che si afferra alle tradizioni portate oltre l’Oceano. Sanno che “l’uomo è sempre l’uomo” che va sostenuto, assecondato, servito; lui lavora, si interessa poco al funzionamento della casa, è di poche parole, nessuna smanceria, a volte di cattivo umore, a volte con un bicchiere di troppo… ma guai se gli toccano la famiglia! Tutto il resto spetta alla donna.
Emerge la figura di Giovanna che trascorre gli ultimi anni della sua vita serenamente insieme con sua figlia Vittoria nata nel 1900, poco più di un anno dopo lo sbarco a Nuova York. Di grande serenità, infatti, è l’immagine che ne danno i figli nelle lettere ai parenti lasciati in Italia. Si ha l’impressione che la sua vita oltreoceano benché dura sia stata coraggiosamente serena, non priva delle difficoltà che toccano a tutti gli immigrati, ma portata avanti a denti stretti per aprire quel varco tanto desiderato ai figli e ai nipoti che saranno americani. Anche Giovanna e sua sorella Concetta tengono a pensione parenti e connazionali disorientati al loro arrivo: è una risorsa economica, ma rappresenta anche una presenza invadente per la vita domestica quotidiana, il sovraffollamento dell’abitazione di tre stanze con un bagno comune nel ballatoio delle scale rende tutto più complicato. E’ anche vero, però, che questo è il male minore per loro che provengono da famiglie molto numerose dove la vita di ogni giorno non era stata certo agevole. E a dispetto di quanti descrivono la quotidianità nei caseggiati delle Little Italies, caratterizzata da sporcizia e promiscuità, sono convinta che le due sorelle, e non solo loro, sanno come far profumare il loro bucato, come tenere pulito il loro poco spazio, come mettere sulla tavola un piatto semplice, ma condito con dedizione, esperienza … tanto indietro non si torna; sanno come sopportare il cattivo umore dei mariti induriti dalle umiliazioni e dal disprezzo di cui, come italiani di prima generazione, sono stati bersaglio. Hanno occupato i posti più bassi nella scala sociale della complessa società newyorkese con gli altri italiani, specialmente del Sud- Italia, con i polacchi e gli ebrei dell’impero zarista. Ma gli ambienti di provenienza di Concetta, di Giovanna e delle loro cognate, erano sani, poveri ma sani, semplici e timorati di Dio, provati dalle sventure e aperti alla speranza, un po’ fatalisti ma mai rassegnati. C’è Giovanna, ormai trasferitasi a Brooklin, intenta a tenere la famiglia unita, a inculcare nei figli i sani principi che ha portato nei suoi fardelli di emigrante, le tradizioni, il ricordo dei parenti lontani, ad aiutarli nelle difficoltà, a far quadrare il bilancio, a dare il suo contributo di lavoratrice instancabile, lavare, stirare, rammendare, cucire … Il lavoro di Luigi si è fatto sempre meno precario, si è distinto tra i lavoratori italiani per la sua forza e perché ci sa fare, ma non è un uomo privo di difetti, gli piace “bere” e certamente la sua condizione di emigrato della classe 1896 lo ha indurito. Non so se fosse diventato un boss, certo è che in quegli anni un italiano che si fosse ben ambientato poteva assumere un ruolo “importante” per i nuovi arrivati che avevano bisogno di un alloggio e di una occupazione, naturalmente in cambio di denaro. Già nel 1897 i tre quarti dei lavoratori edili di Nuova York erano italiani che avevano rimpiazzato gli Irlandesi avviatisi verso occupazioni più redditizie nel settore lavorativo. Il boss poteva anche arricchirsi in modo disonesto affittando a prezzi esagerati locali inadeguati o lesinando sulla paga dei lavoratori i quali a malapena riuscivano a campare, specialmente se avevano la famiglia, inoltre erano soggetti al licenziamento e se s’infortunavano non percepivano il salario. Nacquero, infatti, nelle città con grande numero di emigrati italiani le Società di Mutuo Soccorso.
Intanto i figli di Luigi e di Giovanna vanno a scuola e quando saranno in grado di lavorare daranno il loro contributo, passando per tutte le traversie riservate ai figli degli immigrati e per quelle prodigate dai momenti di crisi economica fino alla “grande depressione”. Il secondogenito di Luigi e di Giovanna, Domenico nato ad Alvito, a poco più di vent’anni prende moglie, ma la giovane sposa si ammala e lo lascia solo con un bambino di cui Giovanna si prende cura con la sua naturale dedizione e bontà, lei è sempre pronta ad intervenire nei momenti di difficoltà e di figli ne ha cresciuti cinque, sa come fare. Purtroppo arrivano i tempi difficili della febbre spagnola che tra il 1918 e il 1919 miete vittime in tutti i continenti, soprattutto tra bambini, ragazzi e anziani. Il bambino di Domenico si ammala, non è un dramma se un bambino ha la febbre e la tosse, ma in quel momento erano i primi segnali di una folle corsa verso la fine. In pochi giorni il bambino sfinito da febbre sempre più alta, tosse, emorragie nasali, diarrea, polmonite, indifferente ad ogni cura allora possibile, si spegne… un altro Angelo del Signore. Ha superato i cinquant’anni Giovanna, ha avuto cinque figli e da madre è stata risparmiata, ne aveva visti di bambini che aprivano le ali per raggiungere la schiera degli Angeli, ma non era mai stata toccata nel vivo. Ora che è nonna/madre conosce quel dolore e piange e prega per quell’anima innocente che sfugge per sempre al suo abbraccio.
Dominick si risposa e avrà altri 3 figli. Giovanna non finisce mai di gioire o di soffrire e all’età di 80 anni vedrà morire Carmine, l’ultimo dei suoi figli, appena quarantenne che aveva conosciuto solo l’America ed era affetto da enfisema. Aveva ereditato le sventure della famiglia Esposito, infatti, come mi racconta Rita Lu che a sua volta lo ha appreso da sua nonna Nellie, Carmine aveva perso sua moglie mentre dava alla luce la loro bambina che volava tra gli Angeli del Signore, mentre il suo corpo avrebbe riposato accanto alla madre, nella stessa bara. Carmine sposò la sorella della defunta moglie ed ebbe tre figli prima di ammalarsi, così la prolificità degli Esposito era salva. Ma questo cognome non piaceva a Cesidio il primo figlio di Giovanna e Luigi, nato ad Alvito, non gli era mai piaciuto chiamarsi Esposito, non per mancanza di rispetto verso il nonno paterno, forse per come veniva interpretato dagli altri, esponendo ancor di più chi lo portava al disprezzo degli americanizzati. Un giorno Cesidio quel cognome lo cambierà, saranno gli anni cinquanta e sceglierà il cognome della nonna paterna che suonava meno triste. Diventerà Joseph Cenci, cancellando anche il troppo italiano Cesidio, poco adatto alla pronuncia inglese. La sua italianità, però, non è da mettere in discussione, legge giornali in lingua italiana, si aggiorna sulla terra d’origine e dopo il secondo conflitto mondiale riallaccia rapporti più intensi con i parenti alvitani. Cesidio è orgoglioso, ha frequentato la scuola superiore è grande lavoratore, pieno di affetto per la famiglia, di venerazione per quella madre coraggiosa. Fin dal suo arrivo a Nuova York con suo fratello va a scuola, impara la nuova lingua, ma la scuola è anche il primo luogo in cui i figli degli immigrati corrono il rischio di vergognarsi di essere italiani. Cesidio avrà coraggio, forza di adattamento, lavorerà sodo e riuscirà a farsi apprezzare, sposerà una donna energica e risoluta e avrà la sua casa a Staten Island, dove vivranno i suoi figli che raggiungeranno ottime posizioni. Giovanna tiene unita la famiglia anche dopo la morte del marito, deceduto a causa di un incidente verso la fine degli anni trenta, e la casa di sua figlia Vittoria a Brooklin diventa il quartier generale, dove la madre tiene desto il ricordo della terra natia e, con il ricordo, la nostalgia.
Ormai molto anziana, Cesidio e Domenico vanno a trovarla a Brooklin e, da lei incoraggiati, scrivono e inviano pacchi ai parenti che in Italia vivono il difficile dopoguerra.
12 novembre 1948: Giovanna ha spedito un pacco, è “allettata” ma è lucida di mente, si ricorda di tutti e chiede sempre notizie dei parenti che ha lasciato in Italia, ormai da mezzo secolo.
6 maggio 1949: Giovanna chiede notizie di Luigino, fratello di sua cognata Cesidia.
11 ottobre 1949: Cesidio parla di sua madre che vive con Vittoria. E’ molto debole, ma è felice ogni volta che le portano notizie dall’Italia.
Il 28 ottobre 1949 è Domenico che parla di sua madre.
12 febbraio 1950: Cesidio scrive che sua madre non è in buona salute e lui va a trovarla spesso.
6 marzo 1950: Giovanna è spirata tra le braccia di sua figlia Vittoria, era il 20 febbraio. La cerimonia funebre è stata celebrata nella Chiesa di Sant’Agostino dove Salvatore, marito di Vittoria è organista. Quindi la salma è stata portata al cimitero “dove riposa zio Nicola, mio padre, zia Concetta e l’ultima mia carissima madre. Vi mando cartolina memoriale e anche di zia Concetta. Così, carissima Giacinta, è finita un’altra bellissima e gloriosamente vita. Mia madre è cresciuto la sua famiglia con carezze e sempre bellissimi esempi e per noi tutti, la vogliamo sempre ricordare con amore, rispetto e vogliamo copiare le belle esempie che sempre ci e dato a noi tutti.”
20 febbraio 1951: Cesidio scrive a nome di sua sorella Vittoria che invia una “cartella” in memoria della carissima madre di cui ricorre l’anniversario della morte …“In sua memoria, perché era molto contenta quando riceveva notizie da voi tutti, specialmente quando sapeva che ci ricerchevamo con pacchetti. Quella contentezza i dava forza, e a noi tutti ci sempre dava la sua benedizzione.”
E’ bella l’immagine che scaturisce dalle parole dei figli, avevo intuito che si trattasse di una donna dolce, riservata, positiva e forte pur nelle difficoltà. Altrimenti non avrebbe attraversato l’oceano con due bambini. Lei, analfabeta. Concetta era più indecisa, sottomessa, ma non priva di coraggio. Concetta era arrivata alla tarda, par allora, età di 30 anni senza aver preso marito e sua cognata commentava: si è sposata perfino Concettella! Oltre ad essere “zitella”, probabilmente non aveva troppe grazie femminili dalla sua parte, ma anche lei, analfabeta, solcò l’Oceano fiduciosa di trovare “Lamerica”.
Giovanna è morta e Concetta l’aveva preceduta, ma ormai i contatti con la terra d’origine sono stati riallacciati e, in piena sintonia con i tempi, gli Esposito newyorkesi attuano il loro piano Marshal per i parenti alvitani. Inizia così la lunga serie di pacchi dopo-guerra, visto che l’Italia la guerra l’aveva avuta in casa e oltre alle vittime aveva portato non poche difficoltà nella vita quotidiana. Una lunga serie di pacchi e alcuni biglietti verdi, che per lungo tempo hanno significato l’Eldorado.
“Domenico ha inviato un pacco, Vittoria ha inviato due pacchi, Cesidio ha inviato altri pacchi… facci sapere se li hai ricevuti e decidi tu a chi devi distribuire il contenuto: giacche, cappotti, abiti, scarpe e ancora giacche, cappotti…
11 aprile 1949: “In quanto alle scarpe le mandero nel pacco che faro fra poco. Le calze, non sapendo la misura addatta, mandero una misura media. Includero tutto in un pacco con anche dei vestiti che ho dato a Vittoria.” E le bambole.
22 novembre 1950: Cesidio scrive che è in arrivo “una piccola pupa per quella piccola bambina. I due piccoli dollari sono per quel piccolo ragazzo che sempre assiste con la carrozzella quando arriva un pacco.” La piccola bambina aveva poco più di tre anni, il piccolo ragazzo, suo fratello, ne aveva otto e aiutava, spingendo una carrozzella, a trasportare il pacco dall’Ufficio Postale nella casa in cui sarebbe avvenuto lo smistamento.
1 novembre 1952: Cesidio si preoccupa della salute dello zio italiano, fratello di sua madre, “…perché dopo di zio, non ci abbiamo più zii. Lui e ultimo, e speriamo tutti che Dio lo preserva per tanti anni.”
7 gennaio 1953: …”ci e dato molto dolore nel sapere che nostro, l’ultimo nostro zio ci e lasciato. … Possiamo esse sicuro però che zio si trova molto bene vicino a Dio, perche sono rare uomini come mio zio. La bella vita che ha fatto merito un posto vicino a Dio. Così può pregare per noi tutti. Io mi ricordo bene quando avevo 5 anni che ero molto malato, e lui venne in casa e mi forzò la medicina in bocca, puro che io non voleva. Mi ricordo il nonno, la nonna e la zia. E’ molto tempo fa, ma pure ancora è scritto in mia memoria, che tutti i miei parenti erano persone nobile, oneste con i cuori grande, e sono oggi orgoglioso che ne le mie vene corre il stesso sangue di zio e altre. Dio sempre benedica a voi tutti e l’anima di mio zio requia in pace e questi sono i sentimenti di noi tutti.”
Lo zio – “l’ultimo nostro zio” – ebbe il più convincente dei necrologi, Cesidio urlò tutto il suo bisogno di radici, di legami con la terra che aveva lasciato da bambino. Il suo italiano ne è ulteriore dimostrazione. Sapeva leggere e scrivere prima di partire e non trascurò mai in terra d’America di curare il suo italiano. Suo Fratello Domenico che al momento della partenza aveva 7 anni, due meno di lui, non ha mai scritto di suo pugno in italiano e anche quando è venuto in Italia, nel 1958, non parlava in italiano, ma capiva.
Il 1958 è l’anno del grande ritorno.
5 settembre, Cesidio-Joseph annuncia il suo viaggio insieme con sua moglie Adelina, con Vittorio – figlio di sua sorella Vittoria, laureato in medicina, ha studiato anche a Bologna – con la nipotina Rita Lu. Sbarcheranno a Genova il 26 settembre, andranno a Bologna, a Roma, quindi… “vengo al paese.” Una raccomandazione, Adelina preferisce essere chiamata “Nellie, pronunziato Nélli.” E’ così che la chiamano tutti.
25 settembre, “Anche Domenico con sua moglie e anche Peppino con sua moglie vengono con me. Non sa quando tempo rimarranno in Italia Domenico e Peppino ma lui intende “di stare un buon tempo e adesso sto vedendo per un apartamento a Roma.” Le raccomandazioni non possono mancare: “…quando siamo tutti nel paese, siamo tutti Esposito e io sono Cesidio. Vi raccomando di non nominare mai, no ringraziare delle cartelle che io o’ mandato, fa che mai avete ricevuto quelle. Parlate dei pacchi, ma niente altro.” E questa volta firma: Cesidio.